È uscito il quarto numero delle celebri interviste della Paris Review (Fandango, pagg. 496, euro 22) e speriamo sia l'ultimo. I precedenti, da quando gli scrittori italiani under 50 li hanno adottati come vademecum tecnico-esistenziale, danni ne hanno fatti parecchi (Gianluigi Recuperati un paio di settimane fa su queste pagine: «Sto leggendo l'intervista a Philip Roth: pura benzina!»). Si tratta di pagine che vengono usate per «mettersi nel mood» della letteratura, quella gelatina di sensibilità descrittiva e infantilizzazione del tragico appresa sui banchi delle scuole di scrittura creativa americane. A peggiorare le cose, aneddoti e dettagli «dalla vita vera degli scrittori». La stanza di lavoro di John Cheever che dà «su un bosco pieno di misteriosi lettori», la «respirazione-espirazione» di Norman Mailer davanti al foglio bianco, la scrivania sul Bosforo di Orhan Pamuk, il gin&tonic di Graham Greene, le pillole di Foster Wallace, penne d'oca, calamai, computer, passeggiate distensive, l'uno per cento di ispirazione e il novantanove di disciplina... Dio ce ne scampi.
In quest'ultimo numero - essendo gli autori trattati cronologicamente un po' più vicini a noi del vecchio Hemingway - la situazione diventa addirittura meno massimalista, più falsamente autoironica, financo depressiva. Vi piacerebbe passare qualche giorno con uno che odia il proprio mestiere? L'esperienza ci dice che sarebbe meglio evitare. William Styron pare non accorgersene («Le piace scrivere? - Nient'affatto. Diciamo le cose come stanno, scrivere è un vero inferno»). Anche la carriera della poetessa Marianne Moore è un po' equivoca: «Di sicuro non ho mai voluto scrivere poesia. Non mi è mai passato per la mente». A tratti eroica: «Non eravamo pagati ma avevamo la possibilità di fare la nostra analisi critica. Per me era il massimo». E maculata di understatement: «Io non sono mai stata l'architrave di nessuno!».
L'intervista a Ezra Pound, invece, si salva perché l'intervistato era della vecchia scuola: meno mood letterario, più ragionamenti lineari. Così come sincera e spassosa appare quella a Jack Kerouac, datata 1968, un anno prima della morte, quando era già tutto assorbito dall'alcol: chi ha visto le foto dell'autore in quel periodo (faccia da camionista stravolto da tre thermos di whisky, camicia da taglialegna aperta sulla pelosa pancia da birra) o letto i memoir di chi gli stava intorno, sa che l'incontro con il giornalista della Paris non poteva non risolversi in una geniale gigionata («Sa chi è un grande poeta? Io sì che so quali sono i grandi poeti. Vediamo... William Bissett di Vancouver. Un ragazzo indiano. Bill Bissett, o Bissonnette»). Un'intervista jam session già pronta per il palcoscenico di un teatro off: «Tuffy! Vieni Tuffy! Vieni qui, micio...», «Stella, portaci un'altra bottiglia... anche due. Oh, trattenetemi o potrei uccidere qualcuno! Già, ero grasso. I sundae! Bum! Prima di ogni partita mi mangiavo due o tre di quelle coppe gelato con la cioccolata calda sopra...». Potrebbe essere Harold Pinter o Ricorda con rabbia. E ancora: «Non crede nelle collaborazioni? Ne ha mai avute al di fuori dell'editoria? - Ne feci un paio a letto con Bill Cannastra, nei loft. Con delle bionde».
Con l'intervista-saggio a E. B. White si riprecipita fuori dalla realtà, nell'ambiente letterario: ripiegamento su se stessi («Avevo scritto molto, ma non avevo fiducia nella mia capacità»), solite vicende di soldi («L'affitto era di 110 dollari al mese... potevo farcela...») e pettegolezzi editorial-fiscali. Per fortuna poi arriva l'ultranovantenne P.G. Wodehouse, con la sua proprietà di cinque ettari a Remsenburg, a est di Long Island: «Problemi a scrivere? - Oh, basta che mi funzioni il cervello». E poi: «Ha sempre saputo che sarebbe diventato uno scrittore? - Sì, sempre. Non ricordo cosa facessi prima. Immagino di aver perso tempo e basta. Faccio lo scrittore a tempo pieno dal 1902». E ancora: «A cosa attribuisce il suo buon carattere? - Ho avuto indubbiamente un'infanzia molto felice. - Le piace sempre scrivere? Oh, sì. Adoro scrivere. Non mi sento veramente bene se non scrivo o se non ho una storia per le mani». Di fatto, tutti gli scrittori felici si assomigliano.
L'intervista a un Philip Roth prolisso, blasé e drammaturgicamente avvitato su se stesso potete pure evitarla. È l'intervistato stesso a trasformasi in giornalista-filologo: «Perché non mi chiede della relazione fra la morte dei miei genitori e quella della madre di Gabe Wallach, l'evento che apre Lasciarsi andare, il mio romanzo del 1962? O perché non mi chiede della morte e del funerale del padre che è al centro del Giorno che nevicò, il mio primo racconto pubblicato sulla Chicago Review nel 1955? O non mi chiede della morte della madre di Kepesh, la moglie dell'albergatore delle Catskills, che è un evento scatenante nel Professore di desiderio?». No, grazie, Philip, non ci interessa. Così come non ci dice nulla Murakami Haruki - scrittore per caso: «Io non sono intelligente. Io non ho niente di diverso dai miei lettori. Una volta avevo un locale jazz, preparavo cocktail e panini. Non volevo diventare scrittore, mi è successo e basta. Sa, è una specie di dono del cielo».
Chiudiamo con un po' di sano attrito, al limite del vaffa, la stessa atmosfera di Intransigenze di Nabokov. «Ha capito cosa stavo dicendo?». «Non parli così. È spaventoso». «Non so se è una domanda giusta o se devo risponderle. La riformuli». «Sia concreto. Dov'è che sono duro? Dove mi ha trovato ruvido? Mi porti un esempio». «Io non sono romantico, io mi innervosisco e basta». «Non avrebbe dovuto farmi quella domanda... Viene fuori dai miei libri? No? Allora perché me l'ha chiesto?». «In questo preciso momento voglio tornare al mio lavoro».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.