In principio fu il fuoco. È infatti grazie ad esso che siamo diventati ciò che siamo oggi. È ciò che differenzia il nostro modo di mangiare da quello degli animali. Di più, nota Massimo Montanari in Il cibo come cultura (Laterza): "Il crudo e il cotto, a cui Claude Lévi-Strauss dedicò un saggio giustamente celebre, rappresentano i poli opposti della contrapposizione - peraltro ambigua e per nulla semplice - fra Natura e Cultura". Il fuoco ha modificato non solo i nostri stomaci, ma anche i nostri volti. E, soprattutto, ci ha dato molto tempo libero. Sia lode al fuoco. Avete presente cosa fanno le scimmie nelle foreste o le mucche al pascolo? Masticano. Per ore. L'uomo no. Merito anche del fuoco. Come nota Michael Pollan, in un libro che non poteva che chiamarsi Cotto (Adelphi), "l'avvento del cibo cotto modificò il corso dell'evoluzione umana: fornendo ai nostri progenitori una dieta più facile da digerire e con una maggior densità di energia consentì al nostro cervello (un organo che, com'è noto, è un gran divoratore di energia) di diventare più voluminoso, e al nostro intestino di accorciarsi". Non solo: il fuoco detossifica e, così facendo, allarga (e non poco) le possibilità di nutrirsi.
Cucinare è qualcosa di magico. E non in senso romantico. Si prende una materia prima e la si trasforma, anche mettendola semplicemente sulla brace. Il suo colore e il suo sapore cambiano. Si arricchiscono. Ed è forse per questo che, nell'antica Grecia, c'era un solo termine per indicare il cuoco, il macellaio e il sacerdote: mageiros, una parola che ha la stessa radice etimologica di magia. Mettersi ai fornelli è dunque tutto questo. Anche se ce lo siamo dimenticati, nonostante il numero sempre maggiore di programmi di cucina.
Secondo i dati degli ultimi anni, infatti, gli italiani passano sempre meno tempo in cucina (lockdown a parte). Siamo attratti dal cibo, ma non abbastanza da dedicargli il tempo che si merita. Ci buttiamo così sul già pronto, senza renderci conto che, così facendo, diventiamo schiavi. Scrive giustamente Pollan: "Cucinare per il piacere di farlo, dedicare una parte del nostro tempo libero a questa attività, significa dichiarare la nostra indipendenza dalle industrie che cercano di di organizzare, così da farne un'ulteriore occasione di consumo, ogni nostro singolo istante di veglia (e a pensarci bene, non solo quelli: la pillola di sonnifero vi dice qualcosa?). Significa respingere, almeno fintanto che siamo a casa, l'idea che la produzione sia svolta meglio da qualcun altro, e che l'unico modo legittimo per impiegare il tempo libero sia il consumo: un'idea che ci sottrae forza. I venditori chiamano 'libertà' questa forma di dipendenza. Cucinare non ha soltanto il potere di trasformare piante e animali: trasforma anche noi, da meri consumatori a produttori".
Cucinare stimola la nostra intelligenza, oltre alla nostra creatività. E, soprattutto, ci permette di sopravvivere. Pensate alla Caesar Salad, per esempio. Siamo in pieno proibizionismo quando, il 4 luglio del 1924, il ristorante dello chef italiano Caesar Cardini viene preso d'assalto dai soliti turisti americani in cerca di alcolici. Lui, per cercare di sfamarli (e non far prendere loro una sonora sbronza), mette insieme gli avanzi che ha in cucina: lattuga romana, uova, crostoni, salsa Worcestershire, parmigiano, succo di limone e olio di oliva. È un successo, tanto che alcuni anni dopo Cardini deve brevettare questo dressing. Il suo smette di essere un piatto ed entra nella leggenda. La sua storia è raccontata in Quando un piatto fa storia. L'arte culinaria in 240 piatti d'autore (L'ippocampo). Che non è solo un libro di ricette - tranquilli, alla fine trovate anche quelle - ma un libro di storia della cucina, da Procopio Cutò ("l'inventore" del gelato) a Christophe Pelè. In questi quattrocento anni di storia trovate di tutto, dai voulevant di Marie Antoine Carême, il cuoco di Luigi XV, al Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, lo chef che rivoluzionò la cucina italiana: "Per Marchesi - si legge in Quando un piatto fa la storia - la scena culinaria degli anni '70 era un imbarazzante sfoggio di romanticismo bucolico che brillava per assenza di tecnica. (...) Considerata il suo capolavoro, la ricetta sintetizzava i principi di Marchesi: non solo coinvolgeva il gusto in modo innovativo, ma suscitava anche una riflessione sul contesto storico e sulla tavola come autentica messa in scena. Coniugando i dualismi pericolo-attrazione e veleno-nutrimento, il piatto era al tempo stesso visivo, letterale, metaforico, spettacolare ed effimero. Se lo zafferano era ritenuto fin dal Medioevo la versione commestibile dell'oro, accompagnare il risotto con l'autentico metallo significava riconoscere che la tradizione culinaria si tramanda da una generazione all'altra arricchendosi nel corso del tempo".
Era dai tempi di Pellegrino Artusi che l'Italia non vedeva una rivoluzione simile in cucina. A proposito: La Nave di Teseo ha da poco ripubblicato La scienza in cucina e l'Arte di mangiare bene, il celebre volume dell'Artusi, oggi curato da Fabio Francione, che scrive: "Gli italiani ebbero da lui la loro cucina. Non che non l'avessero in precedenza, tutt'altro, ma era loro riconosciuta per regioni, particolareggiata per città e province e non come blocco unico a cui attingere liberamente anche nella commistione dei nomi e delle varianti locali. Ciò lo annovera a tanti altri scrittori italiani che hanno saputo inventare e dare nomi a mondi sconosciuti come ad esempio Pasolini". Nel libro, l'Artusi propone 790 ricette, la gran parte delle quali ancora attuali. È da qui che bisogna partire se si vuol cominciare a spadellare seriamente. Qui ci sono le basi, come le paste ripiene, gli arrosti e i bolliti (che sono un'altra cosa rispetto i lessi), che tutti dovrebbero conoscere.
Ma non solo. Sempre La Nave di Teseo ha dato alle stampe Pantagruel, una rivista quadrimestrale che, come scrive Elisabetta Sgarbi, "ha in sé una vocazione al disordine, alla voracità, alla fame e sete di un tutto mai veramente circoscrivibile. C’è un principio di anarchia e di sovversione, non gridato, non roboante ma silenzioso e persino pudico. Come La nave di Teseo". Pantagruel è una rivista per chi ha fame. Per chi è vorace. Non solo di cibo, ma anche (e soprattutto) di cultura. Ed è disposto a mettersi in gioco e a cambiare i piani, come ha fatto la stessa casa editrice. Il primo numero, lo zero, sarebbe dovuto essere infatti sulla filosofia del cibo e del vino. Ma così non è stato. Già perché, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi si è imbattuta in Matera e nel suo pane e così ha cambiato tutto, dedicando il volume pilota proprio a questo alimento.
"Partito prima, dunque, il progetto di 'Pantagruel - Filosofia del cibo e del vino' arriva in libreria dopo, con un tempo più lungo di gestazione, necessariamente più ricco del numero zero, che, tuttavia, mostrava la freschezza e l'auta che spettano agli inizi". Buona lettura dunque. O buon appettito (anche se non si dovrebbe dire). Ma questa è un'altra storia...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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