Il Dio dei Simpson? È uno di famiglia (e ci puoi scherzare)

l'ironia non è peccato: ecco il lato religioso delle icone della "middle class"

Homer Simpson
Homer Simpson

«Di solito non sono un uomo religioso, ma se tu sei lassù, salvami, Superman!». Lo spiazzamento offertoci dalla battuta di Homer Simpson sottintende due cose cruciali. La prima, che il microcosmo del sacro, nella saga a cartoni animati oggi più famosa ha un peso notevole: proprio come capita negli Usa, unica porzione del mondo occidentale in cui le fedi risultano in evidente aumento. La seconda, che il motivo del successo che essa sta ottenendo, in buona misura sta nell'aver intercettato con straordinaria felicità espressiva il cuore della postmodernità, il gioco della citazione, del rimando, dell'allusione insistita a linguaggi, temi, generi, opere d'arte.
Un fulmineo ripasso per chi si fosse perso le circa 450 puntate della serie. I Simpson sono la tipica famiglia della middle class che da sempre affolla l'immaginario cinematografico e televisivo statunitense. Distante anni luce dal modello mieloso delle sit-com di maniera, è connotata da uno smisurato spirito dissacratorio, pur essendo a propria volta quanto mai massificata. Schiava del piccolo schermo, dei fenomeni di massa e di molti pregiudizi parossistici, col suo stile di vita politicamente scorrettissimo, la saga dei Simpson spolpa però ogni mito e ogni consuetudine, riscattandosi dal baratro della mediocrità. Con l'istituzione-famiglia al centro del plot narrativo, sbeffeggiata di continuo, ma anche riconosciuta come l'unico (e ultimo) punto di riferimento in chiave sociale, e a conti fatti il più solido. Il papà, grasso, pigro e devoto a birra e a ciambelle, Homer; la mamma Marge, casalinga perbenista e azzurrocrinita; i tre figlioletti (Bart, Lisa e Meggie). Questa la formazione base.
I personaggi scaturiti dalla matita di Matt Groening interpretano come pochi altri il bisogno di legami sociali in genere oggi negati, ma anche di andare oltre, di cieli almeno parzialmente aperti in tempi di cieli chiusi, della generazione del dopo 11 settembre: considerandola capace di sentimenti, preda di paure irrisolte, aperta al racconto di storie che prendono di petto il groviglio che alberga in tante vite. Gli abitanti di Springfield dimostrano, infatti, di essere in primo luogo una comunità, una compagnia di amici più che di concittadini, con tanto di mito fondatore, feste ricorrenti e tradizioni locali. E confermano che il soprannaturale e le sue deviazioni fanno parte a pieno titolo del teatro della quotidianità, ed è assai più interessante imparare a gestirli che temerli. Certo, irridendo spesso gli scenari del sacro, a partire dalla civil religion di marca squisitamente yankee («Ma Marge, e se avessimo scelto la religione sbagliata? Ogni settimana faremmo solo diventare Dio più furioso!», dice Homer alla moglie per sfuggire alla funzione domenicale; e ancora si lascia scappare un «Dio è il mio personaggio immaginario preferito»).
Al tempo stesso, si inneggia a un dialogo interreligioso fatto di prassi più che di riflessioni metafisiche, come nell'episodio che vede unirsi le forze dell'ebreo Krusty il Clown, dell'indù Apu e del cristiano fondamentalista Ned Flanders per salvare la casa dei Simpson ormai carbonizzata a causa dell'incorreggibile negligenza del pater familias. E ci si rivolge in presa diretta a Dio (raffigurato secondo i crismi dell'iconografia classica) nei momenti di maggiore crisi. Mentre il reverendo Lovejoy, pastore di una non meglio precisata chiesa evangelica, regolarmente sbeffeggiato dal duo Homer/Bart, è più intento a conservare una qualche autorità sociale che a rispondere alle richieste dei suoi fedeli: tanto che sarà la stessa Marge a prenderne il posto, come Signora Ascolta, per replicare attivamente ai loro dubbi e problemi. A esser presa di mira non è tanto l'istituzione Chiesa, quanto i suoi rappresentanti.
I Simpson sono l'unica serie televisiva animata che si permette di parlare di Dio, di quello con la «D» maiuscola. E i contatti diretti di Homer con Lui gli confermano l'inutile prolissità delle prediche di Lovejoy. Mentre Homer litiga con Marge, ligia a ogni dovere civilreligioso, è lo stesso Padreterno che rassicura Homer sull'insignificanza di una partecipazione puramente rituale. Quasi un monito sull'urgenza di rinfrescare il linguaggio ecclesiale! Ma il passaggio più esilarante è forse, al riguardo, un monologo homeriano, in uno dei suoi (rari) momenti di grazia, che produce la seguente preghiera: «Caro Dio: gli dei sono stati benevoli con me. Per la prima volta nella mia vita, ogni cosa è assolutamente perfetta. Quindi ecco il patto: tu fermi ogni cosa così com'è, e io non ti chiederò mai più niente. Se è ok, per favore non darmi assolutamente nessun segno... (silenzio). Ok, affare fatto. In gratitudine, io ti offro questi biscotti e questo latte, se vuoi che li mangi per te, non darmi nessun segno... (silenzio) sarà fatto!».
Esauritesi le preoccupazioni degli inizi degli anni '90 - quando la serie sbarcò in sordina in Italia - con le riserve di genitori e pedagogisti sul linguaggio un po' crudo e qualche scena violenta, oggi il consenso sembra unanime. Il turpiloquio è ridotto al minimo; mentre gli accenni di violenza sono caricaturali e grotteschi, e dunque pieni di autoironia.

La morale dei Simpson e insieme la loro idea vincente è che, dopo il classico tsunami di peripezie e disavventure, ciò che può salvare il salvabile è solo il focolare domestico. Il nucleo familiare, per sgarrupato che sia, come bene-rifugio, investimento a lungo termine, àncora di salvezza in un universo denso di trappole.

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