Gli esuli in Canada: Arnaldo Minerva

La biografia di Arnaldo Minerva, fuggito da Fiume nel 1945 e arrivato in Canada

Gli esuli in Canada: Arnaldo Minerva

Abitavo in Val Scurigne, in una palazzina di Cento Celle - gruppo di case costruite al tempo dell’impero austro-ungarico - acquistata all’epoca dalla nonna. Mio fratello Renzo era di un paio d’anni più piccolo di me. La memoria di Minerva torna molto indietro nella sua infanzia a Fiume, dov’è nato nel 1936; in via Bolzano 26 - come precisa.

Il ricordo però fa bruciare una ferita mai rimarginata e Arnaldo non riesce a frenare l’emozione, quando ripensa alla brutalità con cui fu privato del padre, a guerra finita. Era il 1945, il giorno in cui le truppe titine entrarono a Fiume. Non avendo visto rincasare il papà dal lavoro, accompagnò la madre in questura, dove il genitore era funzionario. Appresero che era stato arrestato, insieme a colleghi di pari grado. Per una settimana lui e la mamma poterono fargli visita ogni giorno, portandogli del cibo. Improvvisamente si sentirono dire di non tornare più, perché l’uomo era stato trasferito in altro luogo di detenzione, non ben specificato. A lungo ed invano si adoperarono per avere sue notizie. Dopo due anni e mezzo di ininterrotto vagare alla ricerca del congiunto, un responsabile governativo brutalmente li rese edotti che il papà era stato fucilato già otto giorni dopo l’arresto, concludendo indisponente che nulla ostava alla loro partenza per l’Italia. Arnaldo rivive ancora adesso la straziante reazione della madre e la sua provocatoria sfida ad uccidere anche lei, rivolta al maggiorente ed ai gendarmi fatti intervenire per allontanarla. Fino ad allora il ragazzo aveva regolarmente frequentato la scuola, seguendo anche l’insegnamento della nuova lingua imposta dalla Jugoslavia. Il giorno successivo al drammatico confronto invece, si rifiutò di partecipare alla lezione e reagì contro l’insegnante, diretta verso di lui per punirlo, scagliandole contro il calamaio, che andò ad infrangersi sulla lavagna, in mille pezzi. Fuggì dalla finestra della classe, al secondo piano.

Preso atto della situazione, la mamma ritenne più opportuno trasferirsi in Italia. Riempirono due vagoni ferroviari con i cassoni e le suppellettili per cui era stato concesso il prelievo. Stante però il divieto di portarsi via qualsiasi oggetto di valore o denaro liquido, nei giorni precedenti la partenza la madre s’industriò a confezionare degli indumenti, in cui occultò gioielli e soldi fra le cuciture di fodere, cinture e colletti. Si destreggiò anche a sfornare dei panini “speciali”, che si rivelarono degli ottimi nascondigli per il suo piccolo tesoro. Superata la minuziosa ispezione corporale, riservata alle donne al confine, la signora si prese la rivalsa di offrire alla milizia un panino; naturalmente non di quelli “con sorpresa”. Comunque non venne accettato.

I mobili vennero destinati ai grandi magazzini di Livorno, attivati per accogliere le masserizie dei profughi in arrivo. La famiglia Minerva invece, dopo una breve sosta al silos di Trieste, raggiunse Bari. La prima sistemazione fu in un convento dismesso della città vecchia. A Fiume dormivo sulle piume; lì mi ritrovai con delle tavole e due coperte come giaciglio – la sua osservazione. Le cose migliorarono con il trasferimento a Fesca, dove rimasero per un paio d’anni in una colonia marina, adibita a campo profughi: una stanza al secondo piano, in una palazzina che si affacciava sul mare. Durante quel soggiorno la mamma incontrò l’uomo con cui si sarebbe risposata, anche lui profugo da Fiume.

Recatasi a Torino dove aveva dei contatti, per verificare possibili sbocchi lavorativi, la signora riuscì ad ottenere un impegno di assunzione alla FIAT per il figlio maggiore e per il futuro marito: l’uno come falegname, l’altro nel reparto verniciatura. Un imprevisto l’attendeva però al rientro in Puglia, dove nel frattempo i funzionari IRO avevano propagandato i vantaggi dell’emigrazione verso il Canada: il suo compagno aveva aderito all’iniziativa, anche a nome del nucleo familiare in cui stava per entrare. Addio Torino, addio FIAT, addio bei mobili a Livorno!

Fra le varie pratiche da sbrigare prima della partenza, ci fu il trasferimento al campo di attesa di Pozzuoli, seguito dal matrimonio della mamma, perché il Canada voleva nuclei familiari completi. Il primo a partire fu il patrigno, che andò in un certo senso in avanscoperta. I ragazzi con la mamma vennero invece trasferiti in Germania, dove rimasero per tre mesi, finché s’imbarcarono sulla Anna Salen. Nei loro bauli. gli effetti personali, il corredo di casa, una macchina da cucire (era una dinastia di sarti il ramo materno) ed alcuni attrezzi da falegname, che il nonno aveva usato per hobby.

Appena superata la Manica, dovettero invertire la rotta e circumnavigare l'Inghilterra, causa un ciclone che imperversava sull'oceano. Nonostante le precauzioni, vennero comunque investiti dall’uragano, che nel frattempo si era diretto verso il nord dell’isola britannica. La traversata si protrasse per dodici giorni, in luogo dei sei previsti. L’ultimo giorno di navigazione fu l’unico ad essere limpido – ricorda. Del Canada sapevano poco, tranne che per qualche documento visionato a Pozzuoli. Era il 1951.

Arrivati ad Halifax, prima di salire sull’ormai ben noto treno, vennero consigliati di acquistare una piccola scorta alimentare, in considerazione dei tre giorni di viaggio su rotaia che li stava aspettando. Oltre a quello che guardava come pane, ma che per noi non era pane, non conoscendo la lingua, acquistammo solo cibi confezionati in vetro, nell’illusione di riconoscerne il contenuto. Aperto però un vaso di cetrioli, all’assaggio pensarono di trovarsi di fronte ad un prodotto avariato. Non era così: nelle linee gastronomiche del nuovo paese, anziché sott’aceto i cetrioli erano stati messi nello zucchero.

Raggiunto il nord del Quebec, a circa 600 miglia da Toronto, si ricongiunsero al patrigno, convalescente però da un serio infortunio occorsogli nelle miniere d’oro in cui lavorava. La nuova vita incominciò all’insegna dell’indigenza: dovevamo fare la spesa a credito, non possedevamo neppure i 15 cents del francobollo per scrivere in Italia e chiedere l’invio di un po’ di danaro, i gioielli portati dalla mamma erano inutilizzabili perché il paese era abitato solo da minatori molto poveri.

Arnaldo decise di aiutare la famiglia: approfittando della sua alta statura, mascherò i suoi 14 anni e dichiarandone 17, si fece assumere nella miniera. La sua assenza da scuola determinò una visita della polizia alla famiglia, all’oscuro di tutto. Pur non condividendole, i genitori si rassegnarono alle sue scelte.

Nel 1953 si trasferirono a Niagara Falls: arrivarono a maggio, in pieno risveglio della natura. Gli alberi che fiancheggiavano la Elisabeth Way, inaugurata qualche anno prima, erano tutta una variopinta esplosione di germogli e corolle. Reduce dal lungo periodo di buio, in cui aveva quasi scordato che esistessero i fiori, ad Arnaldo sembrò di essere giunto in paradiso.

Cominciarono a lavorare per un’impresa che curava la realizzazione di tunnel idraulici per la generazione dell’energia elettrica. Il lavoro era ancora più pesante e pericoloso di quello in miniera, ma la dolcezza del clima e positive prospettive future li convinsero a restare. Fu una scelta giusta: tempo dieci anni, divenne titolare di un’impresa edile di successo, mentre il fratello andò a lavorare nella ditta di pitturazioni del patrigno. Si ritiene un fortunato per il livello imprenditoriale raggiunto, che oltre ad un tenore di vita gratificante gli ha consentito anche sereni momenti di vacanza, a bordo del suo aereo o della sua barca.

Sposato dal 58 con una ragazza di origini trevigiane, è padre di tre figli e nonno di quattro nipoti.

Di Fiume conserva un ricordo assolutamente nitido: lo prova la disinvoltura con cui seppe muoversi per le sue vie, in occasione della sua unica visita, che coincise con lo scoppio del recente conflitto nella ex Jugoslavia.

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