Era fra gli autori più attesi e il Teatro Ariston, ieri, era strapieno. Signore, signori, lettori: ecco a voi Nathan Englander, nato a Long Island nel '70, cresciuto nella comunità ebraica ortodossa, laureatosi all'Università di New York, che a 19 anni è dovuto andare a Gerusalemme per diventare ateo pur rimanendo ebreo: «passare da ortodosso a laico è terribile, credo come per un gay fare coming out: a un certo punto mi sono detto che avrei potuto continuare a essere religioso e accettare la fede che mi veniva imposta, ma mi sarei sentito infelice per tutta la vita. E arrivato in Israele ho pensato che si potesse essere ebrei anche da laici. Dopo un'ora ero ateo».
Oggi vive a Brooklyn ed è un grande «narratore di storie». Il New Yorker lo ha citato tra i venti massimi scrittori del XXI secolo, il suo primo romanzo, Il ministero dei casi speciali (Mondadori, 2007), è stato accolto negli Usa come uno dei migliori romanzi contemporanei. E a Mantova ha presentato la nuova raccolta di racconti Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi), otto short stories tra le quali spicca quella che dà il titolo al libro, storia del gioco inventato una sera da due coppie di ebrei, una laica e l'altra ultraconservatrice, che si chiedono chi tra i loro vicini sarebbe disposto a salvarli, nascondendoli in casa, nell'eventualità di un nuovo Olocausto. «Forse un gioco che ha qualcosa di patologico, ma una cosa del genere la facevo da ragazzo, con mia sorella. È un libro col quale ho voluto affrontare, colpendola al cuore, la questione della titolarità della Shoah: da chi viene usata, chi se ne appropria, una questione centrale oggi per Israele».
Englander è sicuro di sé, controllato, tagliente. «Sono partito con in testa un'idea di questo racconto molto precisa. E dopo l'ho sposata al racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, forse il racconto più celebre della letteratura americana, dove due coppie di amici fanno il bilancio delle proprie esistenze davanti a una bottiglia di gin. Ho riletto il racconto di Carver e mi sono accorto che ciò che avevo in testa quando scrivevo non era il racconto, ma il ricordo di quel racconto.
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