All'inizio della civiltà fu il pane? Più probabilmente la birra. All'inizio dei grandi imperi il discorso di un grande condottiero? Più probabilmente una sbronza per darsi coraggio, per trovare la fiducia che serve nel fatto che chi regge lo scudo di fianco a noi non se la darà a gambe. Insomma la civiltà avrebbe iniziato i suoi passi, per la lunga corsa che porta sino al presente, in modo malfermo e molto etilico. Almeno questa è la tesi che argomenta, con moltissime prove fattuali, Edward Slingerland nel suo Sbronzi. Come abbiamo bevuto, danzato e barcollato sulla strada della civiltà (Utet, pagg. 398, euro 26).
Sono ormai molti i saggi che hanno indagato il rapporto tra l'uomo e l'ebbrezza, tra l'uomo e le bevande, soprattutto se alcoliche (basti ricordare, tra i più recenti, Una storia del mondo in sei bicchieri di Tom Standage), ma Slingerland - docente di Filosofia presso l'Università della Columbia britannica - approfondisce molto il tema mettendo in luce il rapporto profondo tra ebbrezza e civiltà. Per moltissimo tempo antropologi e storici hanno pensato che scoperta l'agricoltura stanziale ad un certo punto attraverso la fermentazione casuale dell'orzo sarebbe stata scoperta la birra. A seguire sarebbe poi arrivato il vino. Insomma l'alcol sarebbe un cascame della civiltà. E l'alcolismo, i cui effetti negativi pericolosissimi non sono in discussione, sarebbe sostanzialmente un comportamento mal adattativo, un cortocircuito che la spinta evolutiva non sarebbe riuscita a risolvere. La biologia umana era pensata per tollerare, come fanno quasi tutti i primati, una certa dose di alcol presente nella frutta quasi marcia (che nelle foreste senza freezer era gioco forza mangiare); la grande dose di alcol prodotta nel mondo agricolo (anche un modo di conservare calorie altrimenti deperibili) è andata a incrociare questa caratteristica naturale senza che la selezione darwiniana abbia avuto il tempo di correre ai ripari.
Slingerland parte da evidenze diverse. Quasi tutte le popolazioni primitive utilizzano sostanze capaci di produrre ebbrezza o effetti allucinogeni. Non può essere un caso. E ancora, i recenti scavi archeologici a Göbekli Tepe, in Turchia, hanno mostrato che i cacciatori-raccoglitori ben prima dell'agricoltura stanziale, si parla di almeno 11mila anni fa, si riunivano periodicamente presso questo gigantesco tempio. E dalle tracce risulta che nei rituali che si svolgevano lì l'utilizzo e il consumo di bevande alcoliche avesse un grande ruolo. Insomma la fermentazione è arrivata prima del forno del pane. Ma perché?
E qui arriva la parte più interessante del saggio. Slingerland ha preso atto che, tra tutti i primati, l'essere umano è quello con una propensione più marcata alla socializzazione. Brutto a dirsi ma sul problem solving da giungla quasi nessuno di noi potrebbe battere uno scimpanzé. Però un gruppo di umani è enormemente più performante di un branco di scimmie. Cooperiamo molto di più, impariamo molto di più l'uno dall'altro. Ma per farlo abbiamo bisogno di avere un grado di fiducia gli uni negli altri molto più elevato degli altri primati... Una faticaccia: dobbiamo far convivere egoismo e fiducia, tendenza a ingannare e necessità di essere leali verso il gruppo.
E cosa dicevano i romani? In vino veritas. Più prosaicamente i nostri nonni? Chi non beve in compagnia è un ladro o una spia. Ecco, l'uso dell'alcol e di altre sostanze psicotrope sarebbe stato un collante fondamentale per le società umane. Per usare le parole di Slingerland: «Una connessione fra produzione massiccia e centralizzata di alcolici e la nascita di un'unità politica e ideologica, è osservabile in regioni del pianeta dove, in modo indipendente, si sviluppano grandi civiltà».
Va così per la chicha degli incas, per la birra dei sumeri e per il vino di riso degli erlitou e shang del Fiume Giallo. E poi il meccanismo di socializzazione è rimasto lì nei simposi dei greci, nei baccanali dei romani, nell'importanza del culto di Dioniso, nell'insistenza di George Washington per avere delle distillerie ad uso esclusivo del neonato esercito degli Stati Uniti. E si potrebbe andare avanti quasi all'infinito, passando dal culto delle sbronze vichinghe agli scrittori che hanno trovato nell'alcol una via per potenziare la creatività e il pensiero laterale (ci sono test scientifici che dimostrano la sua reale efficacia a bassi dosaggi).
Insomma, secondo Slingerland, è necessario prendere atto che l'abbandono parziale del controllo razionale, anche attraverso sostanze dopanti, è stato una delle basi del successo sociale umano.
Ma a che prezzo? Tutto il capitolo 5 è dedicato al «lato oscuro di Dioniso» e non è un capitolo corto. L'alcolismo è un flagello antichissimo, in un papiro uno scriba egizio scrive ad un suo ex allievo dopo essere venuto a sapere che: «Puzza così tanto di birra da spaventare le persone, è come un remo spezzato, che non è in grado di tenere la rotta; è come un tempio senza dio, come una casa senza pane». Il maestro concludeva la lettera sperando che lo studente decidesse di smettere di bere. Stando alle statistiche moderne possiamo immaginare che non sia andata così. Oggi l'alcolismo colpisce dall'1,5% al 5% della popolazione mondiale. E nella propensione all'abuso ci sarebbe una forte componente genetica. Il 15% degli umani, in condizioni di stress, potrebbe sviluppare dipendenza da alcol o da sostanze psicotrope di altra natura. Poi c'è il peso della cultura, l'Italia nonostante sia un Paese famoso per il vino ha un consumo di alcol relativamente morigerato, soprattutto rispetto ai Paesi dell'Est. L'Italia rientra in pieno nella southern drinking culture che vede l'alcol inserito nel sistema dei pasti e frena gli eccessi. È una cultura antica, nata e cresciuta su alcolici a bassa gradazione e che nei secoli ha lasciato un'impronta. In altri ambiti l'alta gradazione ottenuta con la distillazione, scoperta relativamente recente nella storia umana, ha provocato scossoni sociali di grossa entità.
A cui la nostra cultura globalizzata, che negli ultimi anni è diventata molto medicale, tende a rispondere con una sorta di nuovo
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