Quel Machiavelli liberale: così il filosofo Desiderio ne svela i segreti

Il nuovo libro di Giancristiano Desiderio, è un'attenta e rigorosa analisi del vasto pensiero di Niccolò Machiavelli che tocca i più diversi temi: la politica - centrale nella sua vita -, l'utopia, la forza, la virtù e fortuna, la patria e la libertà. Per poi gradualmente elevare il segretario fiorentino al vertice dei massimi esponenti del liberalismo italiano.

Quel Machiavelli liberale: così il filosofo Desiderio ne svela i segreti

Machiavelli e il liberalismo (Rubbettino, 103 pag.) è l’ultimo prezioso libro che Giancristiano Desiderio, uno dei massimi intellettuali liberali, dona al grande pubblico, o meglio, ad una erudita, curiosa e appassionata ma minoritaria élite liberale.

In fondo, è sempre stato così in Italia, i liberali non sono mai stati maggioranza, e nemmeno hanno provato a fare diversamente, tra incomprensioni caratteriali e scissioni politiche.

Eppure come diceva Croce - di cui Desiderio è studioso - il liberalismo visse ‘da un capo all’altro del paese, tra strette di mano e qualche salotto’. Ma da Giolitti a Carandini, Pannunzio e Cattani (ecc…), non riuscì l’impresa di creare un partito liberale di massa.

Se da una parte però fu in grado di gestire il potere (ventennio giolittiano e nei vari governi repubblicani del dopoguerra - sempre in coalizione -), dall’altra schiacciato dalla contrapposizione tra le due imperanti ideologie del ‘900, il comunismo e il cattolicesimo, il pensiero liberale italiano non riuscì mai a mettere solide radici. Con il risultato che nell’Italia moderna una delle prime conseguenze che paghiamo è riassumibile nella storica frase: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”.

Proprio alla base dello Stato, soprattutto moderno, quello che noi siamo abituati a conoscere, le fondamenta le gettò Niccolò di Bernardo dei Machiavelli, conosciuto come Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527).

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Ma cosa c’entra Machiavelli con il liberalismo? A questa domanda è proprio lo scrittore a darci la risposta: “Il realismo politico di Machiavelli è il presupposto senza il quale il liberalismo non avrebbe le basi per stare in piedi e difendere la libertà individuale. Ma c’è di più: in Machiavelli, con la Virtù e la Fortuna, c’è una complessa filosofia per tenere a bada il dispotismo totalitario moderno”.

Il segretario fiorentino, viene tratteggiato come un pensatore finissimo, uno dei massimi della cultura occidentale nonché un abile ambasciatore nell’arte di governo tanto da poter affermare: “Ma fu ‘il principe’ di se stesso?”. Nella vita di Machiavelli c’è un fattore imprescindibile: la politica. È proprio lui che in una lettera a Francesco Vettori del 9 aprile 1513 scrive: “Pure se io vi potessi parlare, non potre’ fare che io non vi empiessi il capo di castellucci, perché la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, è mi conviene ragionare dello Stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo”.

Il ricorso a una politica spregiudicata - che sarà a tratti ripresa a paragone anche nella storia d’Italia da alcuni personaggi, pensiamo a ciò che disse De Gasperi di Andreotti, “è un ragazzo talmente capace a tutto che può diventare capace di tutto!”- sembra volta a negare ogni aspetto morale. Ma attenzione, perché il Principe di Machiavelli è sì ‘Belfagor’, ma molto più umano di ciò che la storiografia ha tramandato.

Desiderio infatti ci sorprende scrivendo: “Altro che machiavellismo! I machiavellici erano gli altri. Lui era un uomo sano. Naturalmente, lo smascheramento non poteva non avere contraccolpi sulla morale. Ecco perché sembra che la neghi, mentre in realtà ne annuncia una nuova che non sopprime il mondo umano e vitale degli interessi e delle passioni ma ne fa il presupposto necessario di una morale mondana che ha il suo principio nella libera vita umana”.

Machiavelli in particolare fa emergere ciò che la politica contemporanea ha perso a causa della demagogia e del populismo, ovvero il “realismo politico” - di cui Camillo Benso conte di Cavour fu un eccellente interprete - contrapponendolo all’utopia, capace di prefigurare scenari di un mondo ideale (inesistente). Ma come ebbe modo di scrivere Salvemini: “Chi tenta di creare il paradiso sulla terra, salta il purgatorio e crea l’inferno”.

E ciò si è poi realizzato con l’avvento delle grandi rivoluzioni comuniste, e continua a permeare una parte importante della cultura politica della sinistra occidentale, dagli Stati Uniti all’Italia con posizioni sempre più radicali: immigrazione senza limiti, ambientalismo, riscaldamento globale, diritti degli animali, linguaggio sessista ecc… è la dittatura del politicamente corretto.

Ma il fine della politica secondo Machiavelli non è il raggiungimento di un governo tecnocratico, d’élite o come diremmo oggi dei “migliori”, bensì volto alla partecipazione popolare, massima espressione di libertà.

Una libertà, che come scrive l’autore nella quarta di copertina “è faticosa” in quanto potrebbe essere vittima di dispotismi o totalitarismi.

Soprattutto nella cultura moderna del secondo dopoguerra, ad esempio in Italia – come accennato – c’è una forte presenza dello Stato nella sfera privata, economica, sociale e culturale. Questo è dovuto al passaggio dallo Stato liberale ad uno di tipo amministrativo con una conseguente oppressione fiscale e burocratica, senza dimenticare il ruolo svolto da una giustizia che non si pone come uno dei poteri – separatori – dello Stato, ma un contropotere organizzato, corporativo e volto alla violazione delle regole basilari del diritto costituzionale.

Ogni problema viene ricondotto all’intervento dello Stato, creando una sorta di statolatria senza precedenti. Soprattutto in un paese come l’Italia, dove Montanelli ebbe modo di affermare: “Lo Stato dà un posto. L'impresa privata dà un lavoro”.

Machiavelli dunque, con largo anticipo, secondo l’analisi del filosofo campano, sdivinizza lo Stato rendendolo “un’opera umana, che, sottoposta al controllo degli uomini, da un lato deve garantire sicurezza relativa e dall’altro non deve violare le libertà degli uomini”.

Il segretario fiorentino, pone le basi dei futuri Stati moderni e liberali, in cui il ruolo dello Stato è volto a garantire solo alcune grandi aree di intervento come la sicurezza (tema molto sentito allora per i conflitti territoriali e nazionali), per lasciare spazio alla libertà, al sapere, alla scienza e agli uomini, in quanto “l'ordine liberale lascia a ciascuno il compito di trovare, nella libertà, il senso della propria vita” (Raymond Aron, Studi politici, 1972).

Machiavelli viene quindi inserito tra i grandi padri del liberalismo a cui i liberali guardano con attenzione e meraviglia per il valore che dà alla libertà e quindi alla limitazione dei poteri. Ma c’è di più: “Il liberalismo – scrive Desiderio – è una forma di realismo politico e il realismo politico è una forma di liberalismo”.

Machiavelli nel suo ruolo di pensatore, diplomatico e scrittore, aveva un tratto caratteristico che nella storia italiana lo hanno avuto in pochi: la lungimiranza.

Cavour ad esempio lo fu nell’usare brillantemente la spedizione di Crimea, a cui il popolo sabaudo era contrario, ma che gli consentì di sedersi (seppur inizialmente in disparte) con le grandi potenze tra cui la nemica Austria. De Gasperi basò la sua azione riformatrice, dalla politica atlantista al piano economico, proiettandosi verso il futuro. Sfortuna volle che la morte se lo portò via prima di vedere quanto di buono aveva fatto. E alla storia è passata una sua frase: “Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione”.

E Machiavelli, già nel ‘500 sentiva dentro di sé ardere il sentimento di patria. Nella sua mente e nella sua visione non c’era più solo Firenze ma l’Italia e gli italiani. L’equilibrio degli Stati territoriali era precario e la possibilità di essere sottomessi dal nemico straniero era un’ipotesi che voleva scongiurare. Non si esagera dunque nell’affermare che Machiavelli anticipò di diversi secoli il Risorgimento. Infatti nella sua casa di San Casciano, c’è una targa che lo celebra in cui si dice: “A Niccolò Machiavelli che qui meditò e propugnò la liberazione d’Italia…”.

La “questione italica” non era ancora all’ordine del giorno, e tardi lo sarà nelle cancellerie europee. Virtù e fortuna, questi due elementi che vivono intrecciati nella vita di un uomo, di un Principe, non riuscirono a elevare nessuna figura – che avesse l’intelligenza di Cavour e lo spirito di fuoco di Garibaldi – affinché si ponesse alla guida di una milizia e liberasse l’Italia. Nemmeno i Medici, esortati dal Machiavelli, risposero alla chiamata.

Il finale di Machiavelli sarà rappresentato da una triste scoperta: l’uomo nuovo che lui ha creato, non c’è, non si vede, non emerge.

L’Italia di Dante, l’altro illustre fiorentino, non era poi così diversa e frammentata da quella dell’autore del Principe. Entrambi dopo una vita scandita da amori, tradimenti ed esili, finirono per avere una visione pessimistica dell’uomo. Il 21 giugno 1527, mentre si sgretolava in maniera ancora più evidente il sogno di una patria italica di Machiavelli, la morte sopraggiunse con tutta la sua silente leggerezza.

E anche nel finale, Machiavelli, seppur deluso e sofferente, non perse il gusto di divertire, raccontando agli amici di aver fatto un sogno in cui c’erano uomini molto umili e trascurati. Questi dissero che erano i santi e beati del Paradiso. Successivamente incontrò altri uomini, raffinati, eleganti, che discutevano di filosofia e politica; tra questi intravide Tacito, Plutarco e altri pensatori dell’età classica. Questi dissero che erano dannati e quindi destinati ad andare all’Inferno.

E così decise anche Machiavelli, preferendo andare “all’Inferno con quei grandi per discutere di politica e così, in pratica, continuare a vivere…”. Punto di vista forse poco saggio – si potrebbe dire scherzando! – per l’imperante clericalismo dei tempi… Machiavelli per le sue posizioni fu definito da un cardinale come “nemico del genere umano”.

Ma molti secoli dopo, sarà il grande umorista Ennio Flaiano a svelarci il vero motivo della sua scelta: “Per gli italiani l'Inferno è quel posto ove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d'accordo”. Machiavelli ci aveva ancora una volta visto lungo…

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