La Marcia verso il fascismo raccontata giorno per giorno

Il "Diario 1922" di Balbo mostra il crollo delle istituzioni e il dilagare della violenza figlia della Grande guerra

La Marcia verso il fascismo raccontata giorno per giorno

L'Italia del 1922, è una polveriera. Infatti esplode. Al termine di una miccia a lenta corsa, innescata subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, e che accelera le sue deflagrazioni, attraverso il biennio rosso e l'occupazione di Fiume, sino ad arrivare al botto finale che squassa le fondamenta dello Stato liberale: la Marcia su Roma di migliaia di camicie nere del 28 ottobre. Una serie di episodi, come la battaglia per Parma tra arditi del popolo e milizie fasciste, segna, costantemente, l'incapacità della forza pubblica di contenere le tendenze rivoluzionarie rosse e nere. In pochi, come il prefetto Mori, tenteranno di prendere il controllo delle piazze, finiranno trasferiti lontano dalle zone calde per le paure che attanagliano Monarchia e Governi (le crisi parlamentari si susseguono a ripetizione). A cent'anni da questo schianto delle istituzioni resta ancora difficile riuscire a cogliere, nel dettaglio, le crisi e lisi di un Paese che avrebbe dovuto essere vincitore ma si sentiva mutilato. In questo senso, per ricostruire una temperie, un clima, poche cose possono essere utili come le testimonianze dirette del periodo. Tra queste spicca Diario 1922. Le camicie nere alla conquista del potere di Italo Balbo, che sarà pubblicato nei prossimi giorni per i tipi della Leg, con la curatela e l'introduzione di Mimmo Franzinelli.


Lo squadrismo ebbe in Italo Balbo (1896-1940), ex ufficiale degli alpini (guidò il Reparto Arditi del Battaglione Pieve di Cadore), un comandante intraprendente e volitivo che contribuì enormemente all'elaborazione tattica che consentì ai fascisti di imporsi, sul campo, agli altri partiti. Fidato luogotenente di Mussolini, venne incluso tra i quadrumviri per la Marcia su Roma. Ed è lui l'uomo che anima il colpo di mano, che non tentenna mai, che sbriciola le perplessità di De Bono e De Vecchi, molto più propensi a trovare un accomodamento con personalità liberali. Senza dubbio dal punto di vista strettamente militare il successo del movimento verso Roma appartiene a questo fascista vicino agli agrari, di radici mazziniane e fortemente antitedesco (tale resterà sino alla sua morte nel 1940). L'intuizione, invece, di come sfruttare politicamente al rialzo i progetti insurrezionali (le milizie fasciste restavano una forza apparente nonostante la brillantezza di Balbo) fu tutta di Mussolini. Insomma due personalità diverse, quelle dei due leader fascisti, che, inevitabilmente, dopo la normalizzazione che seguì la fase rivoluzionaria, finirono per confliggere. Balbo masticò amaro per la messa al bando della massoneria, il Duce mal sopportò i successi di Balbo - negli anni Trenta - come trasvolatore. Tanto da silurarlo dal ministero dell'Aeronautica, atto che Balbo, diplomaticamente, commentò così in una telefonata intercettata: «Quel farabutto ha voluto indorare la pillola... ma io sono capace di andare subito a rompergli il grugno!».


Ma questo è il dopo. Viene utile per capire come mai, quando il Diario di Balbo venne edito nel 1932, Mussolini intervenne personalmente per far sparire alcuni passaggi scomodi. Non si tratta, ovviamente, di un testo neutro, lo rimarca con attenzione Franzinelli, mostrando come Balbo minimizzi le violenze fasciste e enfatizzi l'efficienza dell'apparato militare del partito ben oltre il veridico. Così come vengono espunti scontri interni che Balbo risolse a suo favore con cruda violenza. La corrente sociale del fascismo di Ferrara, che era il feudo di Balbo, venne spazzata via a colpi di mazza, ma nei diari le si dedicano poche righe.
La testimonianza del Diario resta però fondamentale per capire la dinamica che portò alla Marcia. In primo luogo mostrano quanto la Guerra, il trauma delle trincee, avesse creato una spaccatura insanabile. «Lottare, combattere, per ritornare al Paese di Giolitti, che faceva mercato di ogni ideale? No. Meglio negare tutto, distruggere tutto». Da questo punto di vista Balbo descrive chiaramente quanto la trincea si fosse trasformata in incubatrice di sogni sanguinari di palingenesi e, in questo, si sentissero più vicini ai bolscevichi che ai borghesi: «Molti a quell'epoca, anche generosissimi, piegarono verso il nichilismo comunista. Era il programma rivoluzionario già pronto... apparentemente più radicale: in lotta contro la borghesia e contro il socialismo». La svolta mussoliniana per lui non è considerabile di destra: «Mussolini deviò il corso degli avvenimenti... Quelle migliaia di reduci che non volevano fare la rivoluzione per morire, ma per vivere... videro uno sbocco». Con i rossi per Balbo ci si uccide ma quanto ai governativi il 27 gennaio del 1922 scrive: «Ma attenti! Preferiamo chi dice pane al pane e risponde con ferro a ferro». E ancora il 2 marzo: «Noi non abbiamo che un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all'assurdo lo Stato che ci governa... Ci divertiamo a confondere le idee nella testa dei santoni della democrazia».


Nasce così una situazione in cui lo Stato viene lentamente trasformato nel pavido arbitro dello scontro che contrappone le milizie dei partiti. Arriveranno ad averne una persino i liberali che Balbo irride: «Anche i liberali vogliono allora mettersi nel novero dei fuorilegge? Queste camicie kaki sono proprio un frutto fuori stagione... A Bologna qualche squadrista si sta divertendo a spaventarle con uno starnuto». Diversa la battaglia per Parma (1-6 agosto 1922) con gli Arditi del popolo, dove a favore degli insorti si schiera anche Alceste de Ambris che a Fiume con D'Annunzio aveva sognato tutt'altra rivoluzione. Sarà l'ultimo vero scontro, a margine del poco riuscito sciopero legalitario, a far dubitare i fascisti di poter prendere il sopravvento. Balbo anche in quel caso è in prima linea e racconta la lotta casa per casa.
Dopo il percorso dei fascisti è in discesa, riescono sistematicamente a ingannare il governo Facta e i «vecchi parlamentari» sui loro piani: «Siamo nati ieri, ma siamo più intelligenti di loro». Questo mentre Mussolini metteva sotto minaccia la Monarchia: «Io penso che la Monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare la rivoluzione fascista... Se lo facesse diventerebbe subito avversaria, e se diventasse avversaria è certo che noi non potremmo risparmiarla». E, invece, dopo che il Re non firmò lo stato d'assedio - si sarebbe per altro sentito rispondere dal generale Diaz che «l'esercito avrebbe certamente fatto il suo dovere, ma sarebbe stato bene non metterlo alla prova» - la Monarchia venne risparmiata. Anche molto dell'apparato statale, perché il passaggio da rivoluzione a conservazione fu eseguito da Mussolini con funambolismo bonapartista.


Del resto Mussolini lo aveva detto chiaro già il 6 ottobre come annota Balbo riportando le sue parole: «Programmi? Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Il nostro programma è semplice, vogliamo governare l'Italia». Lo fece per un Ventennio con largo arbitrio e populismo. Il finale è noto.

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