È di una bellezza struggente, intrisa di malinconia e di senso della fine incombente, la grande retrospettiva dedicata allo stilista inglese Alexander McQueen che giunge domani a Londra, la sua città, dopo essere risultata la mostra più visitata nella storia del Metropolitan Museum a New York con oltre un milione di visitatori.
Apre dunque al Victoria & Albert Savage Beauty , ma questa volta non si tratta della solita contaminazione tra arte e moda, del consueto scambio tra linguaggi comunque affini. Le creazioni di McQueen rappresentano in pieno lo spirito del tempo che ha attraversato il rinascimento inglese a partire dall'inizio degli anni '90 e coincide perfettamente con l'esplosione della giovane cultura britannica nell'arte con Damien Hirst e compagni, nella musica con il brit pop e la scena del clubbing, nella letteratura e nel cinema, basti pensare a Trainspotting di Irvine Welsh e Danny Boyle.
Nato a South London nel 1969, ultimo di sei figli, il padre faceva il taxista, Alexander McQueen non è un predestinato al successo e può contare solo su un talento precoce che lo porta, giovanissimo, a compiere le prime esperienze con il designer giapponese Koji Tatsuno per poi spostarsi a Milano nell'atelier di Romeo Gigli. La sua prima collezione la firma nel 1993 ed è un omaggio a Taxi Driver il film di Martin Scorsese e alle proprie radici familiari. È questo un anno cruciale nella storia del decennio: la Young British Art esplode sul mercato internazionale, la rivalità tra Blur e Oasis fa pensare a quella storica di Beatles e Rolling Stones e Londra che negli anni '80 era sembrata una città decadente, comunque meno stimolante di Berlino o Milano, torna a essere la capitale mondiale della coolness . Lo testimoniano le riviste nate in quell'epoca, come iD e Dazed, dove pubblicano giovani fotografi quali Rankin e Nick Knight, per un concetto di moda più indipendente che in passato, molto sperimentale e attenta alle culture giovanili.
McQueen è il simbolo di questa nuova Inghilterra, proprio come Vivienne Westwood lo fu dell'era punk: stessa intensità, stessa libertà corrosiva, per poi approdare a una ricerca più complessa, articolata, colma di citazioni, pienamente immersa nel postmoderno. Il trovare un contesto molto favorevole alla sperimentazione e alla creatività non basta però a spiegare il successo del giovane stilista. Qui, come nel caso di Hirst, siamo chiaramente in presenza di un genio assoluto, di uno capace di cambiare le regole di un linguaggio.
Nella bellezza ammaliante delle sue invenzioni troviamo sempre un retrogusto di fragilità, che non è solo la decadenza sapientemente evocata dei Preraffaelliti, del Gotico, dell'era vittoriana e poi del dark in ogni sua forma, ma un sottile mal di vivere che si insinua nelle pieghe dei suoi abiti. Quella stessa fragilità che troviamo nel corpo sottile di Kate Moss, in alcune canzoni dei Verve di Richard Ashcroft e più tardi dei Libertines di Pete Doherty, in generale nelle insistite raffigurazioni di Vanitas e Memento Mori che sono un po' il leit motiv iconografico degli ultimi vent'anni.
In effetti uno dei must di McQueen è stato proprio il foulard con i teschietti su fondo nero, tanto per ricordarci che polvere eravamo e polvere ritorneremo. Quando arriva la notizia del suicidio nel 2010 - pare che prima d'andarsene abbia lasciato un biglietto scusandosi per non essere riuscito a completare l'ultima collezione - il pensiero non può che andare ad altre due meravigliose farfalle volate via negli stessi anni e con analoghe modalità autodistruttive, la drammaturga Sarah Kane e lo scultore Angus Fairhurst, grande amico e compagno di college di Hirst.
Savage Beauty punta più sul lato filologico che sull'aspetto emozionale poiché il materiale disponibile è davvero eccezionale. Gli abiti di McQueen sono a tutti gli effetti sculture contemporanee che non solo interpretano ma anticipano di lustri il dibattito culturale. Lo stilista, che amava definirsi un romantico schizofrenico, riusciva a muoversi tra passato e presente, andando a cogliere nella storia quegli spunti utili a parlare del proprio tempo. Straordinario ricercatore di tessuti, spericolato nelle forme, era capace di utilizzare in poco tempo il tartan della tradizione scozzese e la pelle nera del bondage e sadomaso, pizzi e crinoline che sembrano presi da un dipinto di Gabriel Rossetti ed evocazioni di strumenti di tortura medievale. Se all'inizio della carriera paga qualche debito al mondo della Westwood, raggiunge la maturità in poco tempo con una serie di collezioni sempre ispirate a riferimenti colti e urgenze culturali.
Nel '99, ad esempio, si rifà al film Shining di Kubrick quindi comincia a studiare le influenze islamiche e mediorientali sulla moda contemporanea. L'anno dopo si ispira ai motivi tribali tradizionali africani dei Yoruba, quindi torna alla storia britannica indagando la figura di Maria Antonietta. Letteralmente adorato dagli intellettuali del suo tempo, riesce a tirare dentro i suoi progetti cineasti come Tim Burton e John Maybury a conferma che il suo ruolo non è solo quello di disegnare abiti ma di interpretare un mood della storia e del gusto.
Al di là della tendenza di aprirsi ad altre forme -il V&A era stato un paio d'anni fa palcoscenico della mostra dedicata a David Bowie- è giusto dunque considerare uno stilista al pari di un artista, degno di essere esposto in due tra i principali musei del mondo? La risposta è certamente positiva, anzi viene da dire che raramente a un pittore o uno scultore viene riconosciuta la stessa libertà espressiva, la stessa ansia sperimentale, il medesimo punto di osservazione sulle cose.
Tormentato da questa stessa urgenza di doversi superare ogni volta, ad ogni costo, McQueen non ha fatto in tempo a crescere, invecchiare, diventare maniera di se stesso. Una stella cometa dalla luce fulgida che ha attraversato rapida i nostri anni.Impossibile non vedere questa mostra, che sarà a Londra fino al 2 agosto.
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