«Ho verificato che da pensionato mi servono molti meno denari». Era il 23 gennaio 1966 e così, al compimento dei 70 anni, Donato Menichella motivò la richiesta che gli venisse dimezzata la pensione di governatore della Banca d'Italia. L'episodio, rievocato anni fa dal figlio, racconta molto della personalità di un uomo schivo, ma la cui opera e il cui pensiero furono determinanti per il risanamento bancario e industriale degli anni Trenta e per lo sviluppo economico nel Dopoguerra. Proprio domani ricorre il trentennale della morte di Menichella, l'uomo che negli anni del boom seppe abbinare ricostruzione e stabilità monetaria tanto che nel '59 la lira ebbe l'Oscar come moneta dell'anno (e Menichella come miglior governatore centrale).
Pugliese, nato a Biccari (Foggia) il 23 gennaio 1896, Menichella è unanimente riconosciuto come uno degli uomini che hanno fatto la storia di questo Paese. Certo, il suo carattere riservato al punto dal non rilasciare neppure una intervista hanno fatto sì che non sia mai diventato troppo noto alle cronache. Ma basta ricordare cosa scrivevano di lui Indro Montanelli e Eugenio Scalfari per capire la centralità del suo ruolo: «Il mastino più ringhioso che il denaro pubblico abbia mai avuto», secondo il fondatore del Giornale. Un «servitore» dello Stato «scrupoloso, leale, colto, intelligente, probo e al tempo stesso autonomo» per il fondatore di Repubblica.
Dirigente generale dell'Iri dal '34 al '44, padre della legge bancaria del '36 (ribattezzata riforma Menichella), fu governatore della Banca d'Italia dal '48 al '60. Teorizzò sempre la necessità di reperire i capitali per gli investimenti nel risparmio e non nel batter moneta e nell'inflazione.
In molti, soprattutto a sinistra, lo accusarono di «passatismo» ma lui tirò dritto e i fatti gli diedero ragione. Al punto che quando nel 1960 se ne andò senza brigare per un rinnovo - e declinando, pare, la candidatura al Quirinale - anche a sinistra cominciarono ad ammette i suoi meriti...
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