"Le mie foto non sono rubate, raccontano sempre una storia"

Sebastião Salgado è nato nel 1944 in Brasile. Vive a Parigi ed è stato più volte nominato «fotografo dell'anno».

"Le mie foto non sono rubate, raccontano sempre una storia"

Il paradosso malvagio insito nell'uomo, in Sebastião Salgado si attenua fino a scomparire trasformato nella castità di immagini immortali. Le guerre, gli animali, le migrazioni dei popoli, il lavoro: il più grande fotodocumentarista vivente, nel corso della carriera ha affrontato ogni tema partendo dalla consapevolezza che in tutte le cose esista un lirismo fatto di rispetto e della stessa saudade che si legge nei suoi occhi azzurri. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua ultima mostra a Milano: da Forma Meravigli fino al 28 gennaio saranno esposte 34 foto inedite che raccontano di quando, in Kuwait, i soldati iracheni incendiarono oltre 600 pozzi petroliferi per ostacolare l'avanzata della coalizione militare guidata dagli Usa. Era il 1991, Salgado fu uno dei primi autori a intuire la portata dell'evento e, come Dante, andò a raccontare quell'inferno.

«Si è trattato del più grave inquinamento ambientale mai causato dall'uomo - esordisce -. Di recente, avendo rotto un ginocchio e subito due interventi per risistemarlo, ho avuto tempo per lavorare da casa. Facendo l'editing mi sono reso conto che l'80% di quegli scatti non era mai stato mostrato e potevo farne un libro».
Ha passato gran parte della vita documentando drammi nel mondo. A un certo punto, si è rivolto alla bellezza. Come mai?

«Vede, io parto dalla storia stessa. Non avevo attenzione per i drammi, ma per l'attualità, che è fatta da drammi. Sono un fotografo documentale, le mie opere sono lo specchio della società. Poi sono andato a fotografare l'ambiente, tema che mi sta a cuore. Sono nato in Brasile, vedo con i miei occhi cosa sta succedendo in Amazzonia, se continueremo così in pochi anni sarà tutto finito».
Da dove vengono il suo stile e la sua visione?

«Ho ereditato il luogo dove sono nato, le cose che mi hanno influenzato. Il mio Paese ha i posti più belli e barocchi del mondo, io sono barocco. Io uso i miei strumenti e la mia etica».
Il suo scopo non è denunciare o criticare lo stato delle cose, ma quello di creare consapevolezza in chi osserva. Pensa di esserci riuscito?

«Viviamo in un pianeta bellissimo, pieno di luce e paesaggi. Non faccio niente di speciale, trovo dignità in ogni cosa e sono totalmente in armonia con quello che osservo. Le mie fotografie rappresentano questo coinvolgimento dove la mia estetica e il pensiero sono sempre allineati. In 45 anni di lavoro ho avuto il privilegio di realizzare il mio racconto del mondo».
Qual è stata la più grande sfida della sua carriera?

«Quella di cominciare il mio percorso nella fotografia. Prima ero un economista. Quando ho iniziato a fotografare dovevo capire se le immagini che realizzavo potevano funzionare, se percorrevo la strada giusta. Il fotografo è un cowboy solitario. E' sempre solo. E si fa un sacco di domande su se stesso e sull'impatto dei suoi scatti. Io ho passato così i primi dieci anni».
Come approccia le persone? E come la natura?


«Per ritrarre la gente, un leone, un coccodrillo o un albero, bisogna avere l'autorizzazione, avere rispetto e sapere aspettare. Altrimenti non ha senso. Non abbiamo il diritto di rubare nessuna immagine. E non dovremmo mai dimenticare che anche una pianta è più interessante di noi, comunica con gli altri più di quanto facciamo noi».
Specialmente in «Genesi», si ha l'impressione che lei non sia uno spettatore della scena, ma faccia parte dello stesso paesaggio.

«Racconto solo ciò che scelgo e ho sempre una identificazione con la storia che ho davanti. Ho una ragione per essere lì».
Il mondo sta volgendo al peggio. Che cosa può fare un fotografo?

«In Brasile ho piantato milioni di alberi. La razza umana è per sua natura predatrice, distruggiamo senza la consapevolezza del danno. La differenza è che oggi non ci sono più frontiere e neanche foreste da abbattere. Siamo al limite e siamo in troppi. O gli stati decideranno di agire insieme, o andremo verso la fine».
Se lei dovesse condensare il suo lavoro in una sola parola, quale sarebbe?

«Pazienza.

Viviamo un momento storico in cui tutto è veloce, la buona fotografia richiede tempo. Con il digitale e con gli smartphone, abbiamo creato un fotografare che non è memoria, ma comunicazione. Nella velocità, si è persa la bellezza e l'importanza del ricordare».

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