Parte finale di un trittico sul contemporaneo, la Biennale 2015 targata Okwui Enwezor, fortemente voluta da Paolo Baratta, viene dopo quella mainstream e perfettina di Bice Curiger (2011) e quella fantasiosa di Massimiliano Gioni (2013). È come chiudere un cerchio: la visione europea, quella di un italiano con lunga esperienza in America, ora quella di un africano cresciuto a New York, risultato del mix tra globalizzazione e politicamente corretto.
Enwezor nel 2002 era stato curatore di Documenta a Kassel. Per molti quella mostra aveva segnato un nuovo equilibrio nei rapporti tra primo e altri mondi: l'Africa si guadagnava un posto al sole e il critico andava a cercare in tutto il pianeta le fonti di tensione, le ingiustizie sociali, le sacche di resistenza, la rabbia verso il potere costituito. Il pubblico dell'arte aveva applaudito una mostra di cui oggi si ricordano i principî teorici ma non le opere esposte. Tra i tanti curatori, Enwezor è quello che più si serve dei lavori e degli artisti per dimostrare un proprio assunto, sacrificando (se è il caso) la percezione estetica e la chiarezza espositiva sull'altare dell'attualità. All The World's Future è l'autoritratto di chi l'ha concepita, densa di temi ma scarna di visioni, spesso rivolta al passato e un po' grossolana nel cercare quello spirito di contestazione che piace tanto alla borghesia illuminata.
Prendiamo ad esempio due lavori: i cento disegni che Rirkrit Tiravanija (nel 1993 aveva cucinato la zuppa per gli ospiti della Biennale) ha commissionato a sconosciuti artisti thailandesi, dedicati alle masse che in ogni parte del mondo si ribellano al potere e al capitale; i timbri in legno del camerunense Barthélémy Toguo che raccolgono slogan di protesta globale. Queste due opere riassumono ciò che vediamo ai Giardini e all'Arsenale: i concetti sono molto insistiti e ripetuti in modo seriale affinché restino impressi nella mente, i temi sono appannaggio di chi crede ancora che l'arte debba correre dietro alle più strumentali logiche di una politicizzazione conformista e unilaterale. Gli oppressi stanno da una parte, gli oppressori dall'altra, visione manichea a tratti francamente insopportabile.
«Occupy Biennale» - potrebbe essere questo un ironico sottotitolo, ma qui di ironico non c'è davvero nulla - è come al solito equamente divisa tra i Giardini e l'Arsenale. L'allestimento dei primi ci sembra più riuscito, nonostante la difficoltà di cogliere le tante informazioni di carattere antropologico e socioculturale. Non per niente il video è il linguaggio più utilizzato, anche se è pressoché scomparso dalle fiere internazionali d'arte proprio perché il pubblico sembra ormai disinteressato alle lungaggini e ai pistolotti. Ogni tanto la noia viene interrotta da opere davvero belle, come la proiezione su tre schermi di John Akomfrah, fondatore del Black Audio Film Collective, che parla di umanità e ambiente, oppure il video animato di Wangechi Mutu incentrato sulla fatica dell'essere umano, in particolare una donna, nel portare sulle spalle il proprio fardello. Abbastanza frequente il ricorso ai venerati maestri che sono stati in grado di anticipare certo dibattito del contemporaneo attuale: Fabio Mauri, il land artista Robert Smithson, il francese Christian Boltanski che con il video del '69 L'uomo che tossisce mette in scena tutta l'ansia, il disagio, il ribrezzo, e le foto di Walker Evans sull'America post crisi del '29.
L'ingresso in Arsenale è davvero poderoso, con la grande installazione di Bruce Nauman, altra figura fondamentale per capire il nostro tempo, dedicata alla violenza del linguaggio. Ma è solo un attimo, poi la mostra si perde in un labirinto di segni davvero confuso e la scelta del curatore di nascondere uno degli spazi più belli di Venezia appare penalizzante rispetto al passato. Persino dissonante l'impressione di trovarci proiettati, come da un'astronave che guarda all'indietro, nel mondo di Fluxus dei mitici anni '60, quando ogni artista faceva ciò che voleva, utilizzando qualsiasi materiale, meglio se sdrucito e vissuto, accumulando oggetti di ogni sorta in una specie di gigantesco magazzino di robivecchi. È forse un sintomo di come funziona l'arte al tempo della crisi: si sono tagliati i costi di produzione, molti hanno lavorato al risparmio servendosi di quel che c'è puntando, come un tempo, sul primato delle idee. Cosa che non sempre assiste la creatività ma amplifica l'effetto spazzatura, qui insistito e ricercato come ultimo ritrovato estetico del contemporaneo.
Qualche opera molto bella c'è: l'adrenalinica videoinstallazione di Chantal Akerman; il muro flottante di Kutlug Ataman sospeso al soffitto dove i ritratti di un magnate turco cambiano ripetutamente; l'atlante dei film di Harun Farocki, scomparso nel 2014; l'elegia di una Los Angeles post apocalittica secondo Cao Fei; il lavoro alienante di un gruppo di cinesi sfruttati fino allo sfinimento al solo scopo di dividere perle dal diverso colore (Mika Rottenberg); l'emozionante (almeno per noi italiani) cannone di Pino Pascali che è sempre bello rivedere. Per il resto ancora video documentari, foto, archivi, documentazioni. Aleggia una visione del presente cupa e viziata, che forse piacerebbe ai devastatori di Milano nel giorno dell'Expo, ben poco a noi. Molto strano, per contro, che nessun artista abbia pensato di riflettere sulle potenzialità immense del web nella nostra epoca, su quanto il mondo sia cambiato negli ultimi vent'anni grazie all'abbattimento delle barriere fisiche, su come la cultura sia diventa più accessibile e «democratica».
Soprattutto rispetto alla cultura salottiera e contestataria secondo Enwezor.Ma se l'individuo parla per sé non ha abbastanza voce. Benvenuto all'uomo massa che si agita e non riflette. Questo il futuro del mondo per la Biennale di Venezia.
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