Pollock, il primo pittore (irascibile) d'America

L'artista che scoprì il "dripping" incarnò l'archetipo di una gioventù nuova e ribelle

Pollock, il primo pittore (irascibile) d'America

Jackson Pollock ma non solo: anche Rothko, de Kooning, Kline e gli altri protagonisti della rivoluzione artistica della cosiddetta «Scuola di New York»: questo racconta la grande mostra «Pollock e gli Irascibili» aperta da oggi a Palazzo Reale di Milano (fino al 16 febbraio 2014) curata dall'americano Carter Foster e dal critico Luca Beatrice, firma del «Giornale», del quale pubblichiamo qui un estratto del saggio in catalogo (24 ORE Cultura) dal titolo «Irascibili&Hipster».

Se l'Espressionismo Astratto è il primo movimento americano, Jackson Pollock è il primo artista americano, «anzi il grande pittore americano», come lo definisce Budd Hopkins: «se cercate di immaginarlo pensate a un vero americano, non a un europeo trapiantato. Con le virtù virili del maschio americano: un duro, di poche parole e se cowboy ancora meglio. Certamente non uno dell'Est o uno che abbia studiato ad Harvard. Senza influssi europei, ma con influssi di qui, messicani, indiani americani e così via. Uno uscito dalle nostre terre, non da Picasso o Matisse, uno a cui sia concesso il gran vizio americano, il vizio di Hemingway, quello di bere». E non solo per i natali e il background familiare autoctono, mentre i suoi colleghi più vecchi denunciano l'origine europea: il decano Hans Hofmann nato in Baviera nel 1880, Arshile Gorky (1904) è armeno e il suo coetaneo Willelm De Kooning è olandese, mentre Mark Rothko (1903) ha addirittura naturalizzato il cognome lettone Rotkowics in una versione americanizzata. Ancora, Esteban Vicente (1903) è spagnolo e Edda Sterne, unica donna a comparire nella celeberrima foto degli Irascibili, di Bucarest, classe 1910.

L'americanismo di Pollock non è tanto questione di cittadinanza, anche i suoi coetanei sono tutti nati in America, quanto di approccio all'opera e di costruzione del personaggio che va ben aldilà del semplice essere artista. Quando Pollock «scopre» il dripping, abbandonando definitivamente la pittura da cavalletto per affrontare tele di grandissima dimensione e lavorarci in maniera fisica, pre-performantica, in Europa l'Informale è entrato in una fase se non di decadenza almeno di stanca e il movimento, diffusosi in maniera planetaria dalle colonne d'Ercole al Giappone, scivola verso un naturalismo di maniera che ne determinerà di lì a poco l'implosione. Italiani, francesi, tedeschi non riescono a rivaleggiare con la virulenza, lo spirito innovativo, la sicurezza nei propri mezzi che gli artisti americani degli anni Quaranta, Pollock in testa, mostrano nei loro dipinti, sorpassando il manierismo di un genere in Europa forse obsoleto e che non riesce più a pungere come nei momenti migliori. \

Colpisce, soprattutto, il Pollock personaggio, non si sa quanto suo malgrado o quanto invece abilmente costruito sullo stereotipo «genio e sregolatezza», che farà da apripista a diversi divi irregolari di Hollywood e, soprattutto, alle rockstar maledette di fine anni Sessanta. In effetti la grande popolarità del pittore (nato a Cody, Wyoming, nel 1912) ha origini mediatiche, se si pensa che senza le fotografie e il breve film diretto da Hans Namuth nel 1950 nel suo studio a Springs, Long Island, dove Pollock si rifugiava per lavorare fuori dal caos di Manhattan, il messaggio non sarebbe mai arrivato in modo così diretto ed esplicito e di conseguenza neppure la sua fama \.

Nessuno dei suoi colleghi degli anni Cinquanta incarna meglio di lui quel personaggio unico, mix tra maudit e romanticismo, che lo rende immortale come artista, scomparso a soli 44 anni l'11 agosto 1956, e soprattutto l'archetipo di una gioventù nuova, ribelle, allontanatasi presto dai temi postbellici dei propri genitori, insopportabile ai più e dannatamente modaiola. È il primo pittore hipster della storia americana, e nell'agosto 1949 la rivista Life dedicò la doppia pagina centrale a Jackson Pollock, «facendo arrivare l'artista e la sua opera su tutti i tavoli e i caffè d'America».

Oltre alla grandezza «eroica» di Pollock, c'è un'altra ragione per cui l'Espressionismo Astratto diventa arte americana per eccellenza: perché sinonimo di libertà, proprio l'esatto contrario di ciò che era accaduto nei regimi totalitari europei che avevano fatto della figurazione la loro migliore arma propagandistica, che si tratti della pittura muraria del ventennio fascista, del volgare immaginario bucolico in Urss durante lo stalinismo che «uccise» il talento essenziale di Malevic suprematista, o delle effigi architettoniche magniloquenti della Germania nazista. Nonostante il fondamentalismo culturale del presidente Truman e di McCarthy che amavano il classicismo e disprezzavano l'arte astratta collegandola a «stimoli degeneri o sovversivi» dell'avanguardia, in America la sperimentazione diventa presto il comune denominatore di diverse esperienze, non solo nelle arti visive, in direzione di un'azione libera e svincolata dalla politica. Anzi, all'inizio degli anni Cinquanta il MoMA dà vita a un massiccio programma di esportazione dell'Espressionismo Astratto che i più maliziosi hanno voluto leggere come una forma di propaganda culturale, a cominciare da Parigi, quasi a pagare il biglietto di ritorno della nave per l'America che imbarcò Marcel Duchamp nel 1915, dove nel 1952 vennero esposti diversi capolavori astratti che, secondo il curatore James Johnson Sweeney «non avrebbero potuto essere né realizzati né esibiti in regimi totalitari come la Germania nazista e l'attuale Unione Sovietica con i suoi paesi satelliti». Rincara la dose Alfred Barr, primo direttore del MoMA, spiegando che «il non conformismo dell'artista moderno e l'amore per la libertà non possono essere tollerati in una tirannia monolitica e l'arte moderna è uno strumento inutile per la propaganda del dittatore».

Il compito di un museo, secondo l'ex direttore del programma internazionale del museo August Heckscher, «è connesso alla battaglia principale della libertà contro la tirannia. Sappiamo che dove prevale la tirannia, che si tratti di fascismo o di comunismo, l'arte moderna viene distrutta ed esiliata».

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