C'è un crocevia nel quale s'incontrano molti scrittori e pensatori che provengono da diverse strade. Un posto oramai affollato, ma ancora lontano dall'essere un luogo comune: la democrazia sta male e, di conseguenza, l'Occidente - se possibile - versa in peggiori condizioni di salute. L'idea che la politica abbia fallito, trascinando con sé tutto il sistema, è sempre più diffusa e trasversale. La diagnosi è rafforzata proprio dalla convergenza delle cartelle cliniche dei molti luminari - spesso lontani tra loro - che hanno auscultato lo stanco cuore dell'Occidente. Ma per cogliere il sentore della fine di un'era - e con essa di una civiltà - basta analizzare le cronache politiche che giungono da ogni angolo del mondo: l'estremizzazione dello scontro tra i vecchi continenti; la nascita di nuovi continenti, invisibili e virtuali, ma più potenti e pervasivi dei loro antenati, coagulati attorno alle multinazionali della tecnologia; la crescita esponenziale della Cina - come potenza economica ma anche come standard sociopolitico; la dissoluzione all'interno di identità degli Stati nazionali e la conseguente nascita dei sovranismi in ordine sparso. Il tutto esasperato dalla pandemia e dalla compressione delle libertà democratiche che ne è conseguita. Dopo i fasti di fine anni '80 le democrazie liberali sembrano caracollare, frastornate dai venti del globalismo e indebolite da una inarrestabile crisi di identità.
Eugenio Capozzi, professore ordinario di storia contemporanea all'Università di Napoli, in L'autodistruzione dell'Occidente (Giubilei e Regnani) fornisce una lettura: il nuovo umanesimo invocato dalle élite politiche e culturali è in realtà un cavallo di Troia. Una truffa che, nel nome del politicamente corretto e del progressismo diversitario, propala il «rifiuto di quella concezione dell'uomo come animale razionale e libero che sta alla base dei diritti individuali, del liberalismo, della democrazia, e che è stata costruita nell'incontro tra cultura greca, romana, ebraica, celtico-germanista, attraverso la rivoluzione cristiana e la modernità». E qui inciampiamo in due degli sgambetti più evidenti della modernità: il politicamente corretto e quello che Capozzi definisce progressismo diversitario. Due morse di una tenaglia che tendono a stritolare la libera circolazione del pensiero non conforme e a confinarlo nei recinti della censura. Un processo iniziato nell'ultimo cinquantennio che, lentamente, ha conquistato tutte le élite intellettuali, sociali e politiche della società occidentale, forgiando un nuovo «catechismo civile». In questo catechismo rientrano tutte le ossessioni della nostra società: dall'ultra ambientalismo che «nega qualsiasi gerarchia tra gli esseri umani» al mito della assoluta fluidità. L'esempio del rapporto tra uomini e animali è fulminante: «L'idea di una democratizzazione - scrive Capozzi - dei rapporti tra le forme di vita, e in particolare di una promozione degli animali alla stessa dignità dell'uomo attraverso le assegnazioni a essi di specifici diritti, o attraverso la filosofia del veganesimo, rappresenta in realtà a tutti gli effetti una animalizzazione dell'uomo, una sua degradazione a essere estraneo a un significato universale sul piano del pensiero e dell'etica».
Fluidità anche di genere, ovviamente, basti pensare alla crociata, costante e incessante, per i diritti LGBT, che poi sono diventati LGBTQ e poi ancora LGBTQI e LGTBTQIA, per poi diventare LGBT+, perché - raggiunta la lunghezza di un codice fiscale - diveniva impossibile la catalogazione di tutti i gusti sessuali. Ma anche fluidità di spostamento, lavorativo e abitativo, con la conseguente rimozione e negazione delle proprie radici, nel nome del mito della mescolanza tra le culture. La democrazia tramonta velocemente e lo fa verso Est. Perché i processi di globalizzazione sono divenuti uno specchio in cui l'Occidente si vede irrimediabilmente ridimensionato, dal punto di vista politico e da quello economico, avvitato su se stesso in una battaglia culturale relativista che lo rende facile terra di conquista. È quello che Ratzinger, poco prima di essere eletto al soglio pontificio, definiva «l'odio di sé dell'Occidente». Mentre nel frattempo i nemici dell'umanesimo occidentale, dai fondamentalismi islamici al regime cinese, sono sempre più forti e aggressivi. Senza l'umanesimo delle radici ebraico-cristiane l'Occidente è destinato ad essere divorato dalle «civiltà impermeabili ai suoi principi e più saldamente ancorate alla propria identità».
Percorrendo altri sentieri arriva a conclusioni simili anche Anne Applebaum, giornalista statunitense naturalizzata polacca, editorialista del Washington Post e autrice di Il tramonto della democrazia. La Applebaum vede l'autunno della democrazia nel fallimento della politica e nella conseguente ascesa di forze antisistema, attratte dal fascino rétro dell'autoritarismo. Punta il dito contro Orbán in Ungheria e Morawiecki nella sua Polonia, ma anche contro il successo di Vox in Spagna, di Trump negli Stati Uniti e di Johnson in Gran Bretagna. Anche lei denuncia il ruolo delle nuove élite, ma da un punto di vista speculare rispetto a quello di Capozzi. Le élite della Applebaum sono quelle del Tradimento dei chierici del filosofo francese Julien Benda, il quale nel 1927 denunciò lo scivolare dei suoi colleghi verso il nazionalismo. La giornalista racconta di come gli intellettuali, in Polonia come in Gran Bretagna, abbiano abbandonato posizioni liberali per avvicinarsi a ideologie sovraniste. Sono chierici attratti dalle sirene del potere e della fama, secondo la giornalista, che flirtano con le pulsioni autoritarie e navigano, piratescamente, tra le correnti della rete, cavalcandone le onde più populiste.
Una constatazione che, vista da un Paese come l'Italia, la cui cultura è ancora saldamente in mano ai chierici della sinistra, sembra quantomeno bizzarra. Ma la Applebaum, dalla sua Polonia, ha un altro punto di vista: «Sebbene il dominio culturale della sinistra più intransigente stia crescendo, gli unici moderni chierici che hanno conquistato un potere politico reale nella democrazia occidentale sono i membri di movimenti che siamo abituati a chiamare la destra. Sono, è vero, un genere particolare di destra, un genere che ha poco in comune con la maggior parte dei movimenti politici che così sono stati descritti a partire dalla Seconda guerra mondiale. La nuova destra non vuole conservare o preservare per nulla quel che esiste. Sebbene odino l'espressione, la nuova destra è più bolscevica che burkiana: questi sono uomini e donne che vogliono rovesciare, bypassare, o minare le istituzioni esistenti, distruggere ciò che esiste».
L'autrice attacca la polarizzazione della politica e i social network come luogo dove quotidianamente la verità viene sopraffatta da teorie complottiste e dalle fake news, ma fornisce lei stessa una versione «polarizzata» dei nemici della democrazia, dei «chierici» che con il favore delle tenebre si baloccano a svitare i bulloni dell'Occidente.
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