L'ultimo volo di Italo Balbo

A 80 anni dalla morte di Italo Balbo sono ancora tanti i misteri sul suo ultimo volo. Qualcuno volle eliminarlo?

L'ultimo volo di Italo Balbo

L'uomo d'azione è quello che combatte battaglie in risposta al richiamo della vita che, di norma, si sposa bene anche col richiamo della morte. Battaglie anche non sue. Come la Seconda guerra mondiale non sarebbe dovuta essere la battaglia di Italo Balbo.

Ma il Maresciallo dell'Aria, dopo aver tentato più volte di persuadere Mussolini a rinunciare allo sforzo bellico al fianco della Germania, dalla prima linea non poté tirarsi indietro. Dal fatal balcone di Piazza Venezia il Duce aveva dichiarato guerra a Francia e Germania da appena 18 giorni, quando Balbo, governatore della Libia già da 7 anni, si alzò in volo da Derna a bordo di un S.M. 79 Sparviero, che passerà alla storia col soprannome di "gobbo maledetto". Balbo fu tra i primi in Italia a conseguire il brevetto di pilotaggio già negli anni Venti. Il trimotore, quel giorno, lo pilotava lui. Al suo fianco c'era il fido Nello Quilici, sublime penna livornese ma ferrarese d'adozione proprio per via dello stretto rapporto con Balbo.

I due, decollati pianificando una sortita dietro le linee inglesi, si trovavano da poco sulla verticale di Tobruk. La base italiana, di quell'incursione, non sapeva nulla. E men che meno aveva compreso l'intenzione di Balbo di rifornirsi nel porto della Cirenaica. Poco prima, qualche pilota inglese aveva avuto idee simili, e a bordo di un Bristol Blenhien aveva colpito delle installazioni portuali non lontane dalla pista d'atterraggio scelta da Balbo. La contraerea italiana, delle dovute differenze tra i due aeroplani, se ne accorse tardi. L'incrociatore San Giorgio aprì il fuoco. Lo Sparviero di Balbo e Quilici venne distrutto e scomparve nel silenzio.

Di fatto, la più grande sfida che la storia pose di fronte a "pizzo di ferro" fu quella che non poté combattere. Eppure di sfide, uno come lui, ne vinse d'ogni tipo. Nei 44 anni che precedettero l'incidente del 28 giugno 1940 Balbo visse cento vite.

Nato nel 1896, venne allevato come monarchico, ma simpatizzò per le idee repubblicane. Non aveva obbligo di andare in trincea durante la Grande Guerra, ma partì volontario. Fu alpino prima e ardito poi. E, nel 1920, divenne leader dello squadrismo fascista nel ferrarese. Non un manganellatore di professione, ma uno stratega, capace di gestire bastone e carota a differenza di molti altri ras in camicia nera. Il suo intelletto, oltre alle sue doti, gli permisero di partecipare alla Marcia su Roma davanti a tutti, da quadrumviro. Ma non certo da lacchè. Fu tra i pochi, anzi, a potersi permettere di guardare dritto negli occhi Mussolini, e a rispondergli a tono.

Nel '21, poco prima della Marcia di Roma, tentò addirittura di destituirlo. Celebre, infatti, è l'aneddoto che lo ritrae insieme a Dino Grandi (che ventidue anni dopo il Duce lo destituì davvero) suonare al campanello del Vittoriale degli italiani per chiedere a Gabriele D'Annunzio (l'amico degli aviatori) di prendere il controllo dei fasci di combattimento. Il Vate nicchiò. Guardò nel vuoto. Creò la
solita, teatrale suspense e rispose: "Vi aspetto domani all’alba". Con una risposta, si auguravano. Invece, la mattina dopo si presentò davanti ai due l’architetto Maroni che con rammarico disse: "Cari amici, il Comandante ha vegliato tutta la notte per vedere se appariva la stella Diana per chiederle ispirazione: il cielo coperto ha impedito la visione della stella, il comandante vi prega di tornare domattina". Dopo aver pronunciato l'impronunciabile, Balbo andò via. La storia, se quella stella fosse passata, sarebbe potuta cambiare per sempre.

Balbo, dunque, divenne quadrumviro. E, nel 1926, ministro della neonata Aeronautica, che contribuì a rendere uno strumento di propaganda senza pari. La sua predilezione per gli idrovolanti simboleggiava una delle tante, tantissime dicotomie balbiane: i critici, tra cui il napoletano Francesco De Pinedo, il più grande aviatore in solitaria della storia italiana, cercarono di segnalare al Duce che la "megalomania" di Balbo potesse finire per privilegiare troppo la forma a discapito della sostanza. L'aviazione civile italiana, in effetti, divenne ben presto un'avanguardia mondiale. Ma dal punto di vista militare gli sviluppi e le innovazioni furono contenute. E lo scotto, l'Italia, l'avrebbe pagato con la guerra. Una guerra che, forse anche per questo motivo, Balbo non voleva.

Si diceva della propaganda, però. Che si tradusse con l'organizzazione delle due più grandi trasvolate atlantiche compiute negli anni Trenta. La prima, che si tenne tra il 17 dicembre 1930 e il 15 gennaio 1931 da Orbetello a Rio De Janeiro, è per paradosso anche la meno celebre. E il motivo è molto semplice: nei 32 tentativi di voli oceanici tentati nel mondo fino ad allora, erano morti ben 22 piloti. Dal punto di vista propagandistico, quindi, si sarebbe potuto rivelare un boomerang fatale per il fascismo. Ma un'impresa senza rischi che impresa sarebbe? 52 piloti addestrati al volo cieco, organizzati in quattro squadriglie e in 14 idrovolanti S.M.55 (due di riserva), con l'appoggio di cinque cacciatorpediniere e superando non poche difficoltà (uno degli equipaggi, quello del capitano Luigi Boer, perse la vita) arrivarono a Rio dopo aver percorso 10mila km.

La notorietà di Balbo divenne planetaria. Il ministro, inebriato da tanto clamore, si proiettò subito sulle imprese successive: un giro del mondo da effettuarsi nel 1932, nel decennale della Marcia su Roma, poi saltato per via del conflitto sino-giapponese, e, soprattutto, un secondo raid atlantico Orbetello-Chicago-New York, in occasione dell'Esposizione Universale della Città del Vento.
A partecipare a quella che passò alla storia come "Crociera aerea del decennale" furono oltre 100 aviatori, assistiti da sei baleniere, due vedette, due sommergibili e tre stazioni meteorologiche stanziate in Groenlandia. Non sono pochi i piloti contemporanei che, consci della macchina organizzativa e delle incognite tecniche, definiscono l'operazione, per l'epoca, equiparabile allo sbarco sulla Luna.

Il 7 luglio 1933 decollarono da Orbetello venticinque S.M. 55X, con motori più potenti e una strumentazione appena più all'avanguardia. Il risultato fu un successo senza pari. A Chicago il nome di Italo Balbo riecheggia ancora oggi, con una strada intitolata al trasvolatore e la colonna romana prelevata da Ostia e donata da Mussolini alla città dell'Illinois posta nella parte sud della città a imperitura memoria. Una colonna, peraltro, che più volte (l'ultima nel 2017) è stata osteggiata dai precedessori degli iconoclasti di oggi, che vorrebbero distruggerla per sempre. A New York, allo stesso modo, Balbo e i suoi vennero portati in parata a Broadway a bordo di auto scoperte che attraversarono cordoni di decine di migliaia di persone. Tra questi, italiani emigrati all'estero che per la prima volta sentirono nuovamente vicino il tricolore.

Le imprese aviatorie di Balbo permisero all'industria aeronautica italiana, fatta di sigle storiche come Caproni, Piaggio, SIAM-SM, Macchi, Breda, Fiat e Cantieri dell'Adriatico, di esportare tecnologie in tutto il mondo. Gli idrovolanti S.M.55 vennero venduti persino all'Unione Sovietica. In Italia, per contrappasso, oggi non ne esiste più nemmeno un pezzo da museo.

Il raid nordamericano (il cui diario, La Centuria Alata, è stato ripubblicato di recente insieme a quello della prima trasvolata, Stormi in volo sull'Oceano) fu l'ultimo acuto di Balbo prima dell'esilio dorato in Libia, ufficializzato da Mussolini nel novembre del '33 per liberarsi di una "primadonna" ormai fin troppo scomoda.

Da governatore della Libia, però, Balbo non rimase certo con le mani in mano. Il fascista "atipico" si preoccupò da subito di smantellare i campi di concentramento italiani, di liberare i prigionieri nelle carceri e di costruire infrastrutture, impianti d'irrigazione, villaggi. Propose addirittura la concessione della cittadinanza italiana ai libici. Un'idea che piacerebbe non poco ai progressisti di oggi. Nel '37 portò a compimento la straordinaria "via Balbia", l'arteria che percorre ancora il litorale libico.

Dopo gli ulteriori screzi con i vertici del PNF in occasione della partecipazione italiana nella Guerra civile spagnola, nel 1938 la frattura tra Balbo e il fascismo divenne quasi insanabile con la promulgazione delle leggi razziali.

Balbo, da sempre vicino alla comunità ebraica di Ferrara e amico fraterno di Renzo Ravenna, fascista della prima ora e podestà della città estense, si oppose come poteva. Dal punto di vista politico, facendo escludere dalle leggi "almeno" gli ebrei insigniti delle Croci al merito di guerra ed evitando la deportazione degli ebrei libici. Dal punto di vista pratico, mostrando il suo disprezzo per le leggi antisemite ad ogni occasione. Come quando invitò a pranzo Ravenna, destituito da podestà, nel miglior ristorante di Ferrara, dove un ebreo non sarebbe potuto entrare. Balbo sferrò un calcio alla porta spalancandola ed entrò prendendo sotto braccio il vecchio amico. Persino l'Anpi gli riconosce la contrarietà all'alleanza con Hitler (Balbo, del resto, a differenza di molti fascisti, conosceva la potenza degli Stati Uniti) e alle leggi razziali.

Questo suo ruolo di bastian contrario, a 80 anni dalla morte, contribuisce a tenere ancora in piedi le speculazioni sull'incidente di Tobruk. Vero errore o macchinazione del Duce per eliminare un rivale scomodo? Uno dei tanti misteri della storia. A differenza della fama di Balbo, invece, che resta una certezza. Allora come oggi è tuttavia apprezzato, come spesso accade, più all'estero che in Italia.


Dopo la sua morte persino il nemico inglese volle rendergli onore, paracadutando dietro le linee italiane un involucro con dei fiori accompagnati da un messaggio che non lascia spazio all'interpretazione: "Le forze aeree britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che la sorte pose in campo avverso".

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