Raimondi, il custode delle lettere italiane

Da Dante a Machiavelli, da Tasso al periodo barocco, ha indagato l'opera dei più grandi autori. Senza remore di tipo ideologico ed elevando la critica al rango di arte

Raimondi, il custode delle lettere italiane

Con Ezio Raimondi il sapere umanistico, già così ripetutamente messo in crisi e umiliato, perde uno dei suoi ultimi altissimi cultori.

Nato sulle colline bolognesi nel 1924, Raimondi ebbe come maestri Carlo Calcaterra e Roberto Longhi: due personalità che ci mostrano subito come la sua formazione sia avvenuta tra letteratura e arte, nell'incrocio fra esperienza della storia e fascinazione dello stile. All'inizio, il suo lavoro è precipuamente filologico, e trova il suo acme nell'edizione critica dei Dialoghi di Torquato Tasso. Poi i suoi interessi si spostano sul manierismo, in un libro come Rinascimento inquieto, e approdano al Barocco. È lì che, giovanissimo, mi sono imbattuto in Raimondi. Mentre studiavo i trattatisti della metafora nel Seicento, il suo lavoro diventava per me imprescindibile. Nell'indice dei nomi della mia Metafora barocca il nome di Raimondi è tra i più citati, tributo che era doveroso pagargli già allora. Sua è l'introduzione all'antologia Trattatisti e narratori del Seicento, e rimangono fondamentali volumi come Letteratura barocca, del 1961, e Anatomie secentesche, del 1966. Lì vengono letti e riproposti autori come Emanuele Tesauro, come Matteo Peregrini. Daniello Bartoli, il grande prosatore gesuita, trova in Raimondi un lettore attento e capace di andare al di là delle interpretazioni maggiori: se Francesco Flora aveva definito Bartoli «poeta del dizionario» e Carlo Calcaterra «Creso del vocabolario», Raimondi, correggendo persino il suo maestro, lo sottrae a una visione soltanto retorica per indicare la sostanza della sua parola come un «riflesso e una parte della creazione». Del resto, nel Barocco, la conoscenza delle cose attraverso la parola riesce «doppiamente religiosa», come ebbe a osservare, commentando le posizioni del Raimondi, un altro grande della critica barocca, Giovanni Getto.

Raimondi è stato refrattario a ideologie letterarie troppo militanti, molto diverso in questo dall'altro maestro che dalla cattedra di Bologna ha formato come lui intere generazioni, voglio dire Luciano Anceschi, infaticabile nell'individuare il nuovo e nel teorizzarlo. Ma per esempio sul Barocco Raimondi è vicino alla lezione anceschiana, vedendovi alla fine convergere le arti e la nuova scienza, la gnoseologia e la filosofia, in quel coacervo di crisi e meraviglia, paura ed esaltazione, misticismo e carnalità che è il segno distintivo dell'arte e del pensiero secentesco. Raimondi passa dal Barocco ad altre epoche, per esempio in Intertestualità e storia letteraria. Da Dante a Montale, del 1991, dove si leggono anche saggi su Petrarca, Ariosto, Leopardi. Altri autori cui dedica il suo interesse critico sono Manzoni, uno dei suoi prediletti, e d'Annunzio.

Una delle ragioni che fanno di Raimondi un campione del pensiero umanistico, oltre alla sua vocazione di professore nel senso più alto del termine, è la sua passione nel definire il metodo della critica. Oggi che tutti dicono la loro sgangheratamente su tutto, sembra quasi strano che qualcuno si sia appassionato (io da giovane ero tra questi) a come la critica può avvicinarsi a un'opera d'arte, con quali strumenti, con quali fini. Tecniche della critica letteraria è uscito nel 1967, Metafora e storia nel 1970. Allora, ventenne, ho avuto molto commercio con questi libri interrogandomi sull'essenza stessa della mia passione per la letteratura. Tempo perso, diranno oggi in molti. Ma il possesso dei propri strumenti è un requisito fondamentale della propria libertà e della propria ricerca di verità.

Raimondi, partito dalla filologia, pensa che la critica non può fermarsi al linguaggio. Dialoga con lo strutturalismo e la semiotica ma non li sposa mai del tutto. Per lui, lo strutturalismo non può dimenticare del tutto lo storicismo, e la critica deve anzi trovare i punti di intersezione fra stile e storia, lingua e antropologia, continuando a indagare le strutture simboliche della conoscenza. Non ho mai incontrato di persona Ezio Raimondi. Il mio incontro con lui è stato sempre soltanto sui libri. La sua figura di maestro, fondatore del Mulino, accademico dei Lincei, era soprattutto la figura di un uomo che sapeva e mostrava come nei libri sia rinchiusa l'essenza del nostro essere. Come la lettura sia un esercizio rigoroso, severo, nondimeno capace di aprirci mondi meravigliosi dove il linguaggio ci porta diritto al segreto, ai segreti dell'anima.

Rispondendo a Luigi Mascheroni al Salone del Libro di due anni fa, Raimondi diceva: «Leggo da ottant'anni, sfogliare i libri ormai in me è un gesto naturale, come camminare». Commuove rileggere parole come queste. Che ci parlano di tempi e di uomini che non vorremmo fossero finiti per sempre.

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