Ora su Vimeo, "Roma Caput disco", un docufilm nostalgico e appassionato, che racconta dalla viva voce dei protagonisti, come Jovanotti, Fiorello e Roberto D'Agostino, la nascita del mondo delle discoteche romane. Un mondo quello, che ha infiammato un'intera generazione, facendo nascere la professione del dj. Un lungo lavoro messo insieme da Corrado Rizza, che da anni lavora nei locali più importanti di Miami, e che quel periodo, non solo lo ha vissuto, ma ha fatto parte della sua nascita. Così come David Bowie, Jack Nicholson o James Brown, solo alcuni dei grandi nomi, che hanno lasciato un segno nelle notti delle disco romane. Ed è proprio con Corrado Rizza che ne parliamo, in questa lunga intervista dal sapore amarcord.
Lei vive ormai da anni a Miami, le manca Roma?
“Mi manca come bellezza, mi mancano le persone care, gli amici. Però sinceramente quando penso a come vanno le cose, anche in generale in Italia, so che dopo un minuto mi arrabbio. Nonostante non ami molto il modo di fare americano, qui comunque si continua a lavorare e l’economia va avanti, mentre in Italia vedo che va tutto a rilento. E io non sono un negazionista, anzi mi sono subito vaccinato".
Dopo una lunga trattativa, solo da poco hanno riaperto le discoteche al 50% della capienza. Prima chi voleva ballare andava nei party illegali. Secondo lei è giusto?
“L’essere umano per natura è portato a trovare degli escamotage. Nonostante a New York ti chiedano una sorta di pass vaccinale per entrare nei locali al chiuso, e in California hanno arrestato persone che lo avevano falsificato, perché qui non si scherza, è comunque tutto aperto, e lo è sempre stato. In Italia, nazione che io reputo molto più intelligente, il Governo ha dimostrato ancora una volta di essere poco chiaro e di creare solo confusione. Hanno pensato prima ad altre situazioni, e non parlo di cose importanti come ad esempio i mezzi pubblici sempre pieni di gente. Lo hanno fatto perché alla fine fa sempre comodo dare la colpa alle discoteche. Proprio come succede quando si parla di droga, sembra che ci sia solo nei locali da ballo. Invece è ovunque, anche sul posto di lavoro. Nessuno ha aiutato questo settore. Qui in America hanno dato molti soldi alle imprese, agli imprenditori e anche ai privati. In Italia mi sembra che nessuno sia stato aiutato. Io personalmente ho amici tra dj ed imprenditori, messi malissimo”.
Il fatto di dare la colpa alle discoteche e ai luoghi di divertimento, non è una cosa nata con il Covid, ma molto prima. Secondo lei perché?
"Sono sincero, da padre di famiglia dico che se mio figlio mi chiede di andare in discoteca, piuttosto che a cena a casa di un amico, io scelgo la seconda opzione. In effetti le discoteche e i locali da ballo sono luoghi di aggregazione, ma secondo me esiste una cattiva volontà di non voler trovare una soluzione. A mio parere le discoteche vengono usate come dicevo prima, da specchietto per le allodole. Come per dire alla gente: 'Tranquilli, non le riapriamo, quindi non c'è pericolo di contagi'. Invece dovrebbero trovare soluzioni migliori del 50% di capienza, perché per i giovani sono forse l’unico luogo dove riescono a trovare un po’ di realtà, e reale divertimento. Possibile che noi italiani, che siamo i re degli escamotage, non ne troviamo uno? O forse non vogliamo trovarlo? La totale riapertura, potrebbe diventare anche un modo per aumentare la vaccinazione tra i giovani, che sono poi quelli che più degli adulti propagano il virus".
Parlando del suo documentario “Roma Caput Disco”, che racconta gli anni più belli della nascita delle discoteche, vorrei capire da lei che li ha vissuti l’aria che si respirava in quei tempi...
“Sicuramente di spensieratezza, qualcosa di bello e sperimentale. Per noi ragazzi dell’epoca era un momento di fermento e grandi novità. Sperimentavano questa nuova professione, quella del dj, che neanche sapevamo lo fosse. Ora farlo fa tanto figo, all’epoca eri quasi considerato uno sfigato. Mentre i tuoi amici stavano in giro con la fidanzatina, tu eri lì giorno e notte a far girare i dischi. Però ci piaceva, e avevamo questa passione dentro che ora manca alle nuove generazioni. Era quello il periodo dell’incoscienza totale, anche da parte di chi gestiva il Paese. Mi ricordo che in quegli anni vennero poi fuori anche molti scandali politici. Sono stati però momenti irripetibili, dove ci siamo trovati in questa concomitanza astrale, che faceva sembrare magico tutto quello che avevamo intorno. Sembrava che niente potesse avere una fine. E non parlo solo dei dj, ma anche dei giornalisti, dei fotografi e dei grafici. Tutto questo lavoro di noi artigiani dell’epoca, è stato poi annullato semplicemente da un tasto che si chiama sync. Solo io e pochi altri della mia generazione, quando mixiamo ad orecchio capiamo se c’è un problema. La massa, quella che sta dall’altra parte, è diseducata rispetto ad una volta. Prima c’era molta più educazione musicale, che passava anche dalle radio che proponevano musica diversa. Addirittura le discoteche erano fonte di ispirazioni per le radio stesse e venivano spesso gli speaker per prendere le idee da noi. Oggi nelle radio è tutto gestito da computer. Gli speaker non toccano un disco, e non fanno nessuna scelta, perché tutto è affidato al direttore artistico che agisce da solo e ha la responsabilità di passare una canzone, piuttosto che un’altra. Magari basandosi soltanto sui suoi gusti o sull’umore del giorno. È una critica questa che muovo a questi importanti strumenti di diffusione, perché l’Italia è un Paese piccolo rispetto all’America, che è talmente grande da influenzarsi da sola. Noi no, e a mio parere il tutto andrebbe gestito diversamente. Non è possibile ascoltare radio diverse che passano la stessa musica. Sia i ragazzi che i dj dovrebbero sperimentare di più. Cercare musica diversa. Noi all’epoca andavamo a Londra e a New York a comprarci i dischi, per questo c’era un’enorme varietà di musica e di influenze. Questa è una delle cose che ho voluto raccontare in un’ora e 14 minuti di "Roma Caput Mondi", per far percepire cosa succedeva a chi non l’ha vissuto".
Racconta che in quel periodo vennero aperte le discoteche gay come l’Alibi o l’Easy Going. Eravate oltre anche in quello?
“Credo che la trasgressione che c’era all’epoca fosse molto più forte di oggi. In quel periodo il gay era una persona stravagante, che aveva le sue preferenze sessuali, ma non era visto come oggi. Non c’era alcuna forma di razzismo. Addirittura certi termini erano molto più sdoganati. Mi riferisco ad esempio a quando si parlava delle persone di colore. Nei club gay, e lo dico oggi con una visione a posteriori di circa 30 anni, c’era trasgressione ma anche tolleranza. E posso dire, da frequentatore, che quello che si vedeva all’epoca non era niente di più o di meno di quello che si vede oggi. Con la differenza che oggi viene tutto amplificato, anche dai social, spesso in maniera sgradevole. Oggi c’è questa sorta di feticismo dove si pensa prima a fotografare quello che si fa, piuttosto che viverlo. Questa cosa che apparentemente appartiene al futuro rispetto all’epoca che racconto, a mio parere non è un progresso, piuttosto una regressione. Una volta se volevi vedere e soprattutto vivere, dovevi essere in quei posti e frequentare la notte. Questo è quello che ho cercato di raccontare, anche se solo in parte, perchè era difficile farlo in 74 minuti. Ci sono state tante persone della notte, che io ricordo benissimo, e avrei voluto citare anche solo con una foto o un nome. Però è stato difficile rimettere insieme l'enorme puzzle di quegli anni”.
Parlava prima di droghe, mi sembra però che in confronto a quelle che girano oggi, all’epoca fossero diverse...
"Sono nate droghe inesistenti in quel periodo. Simbolicamente anche qui c’è stato un passaggio dall'analogico al digitale. Da quello che era reale, al sintetico, e anche le droghe sono diventate chimiche. Penso a quella chiamata 'droga dello stupro', che è un’aberrazione.
Sintentiche come la musica?
"In un certo senso sì. La cassa è diventata dritta quando è scoppiata la musica house, quindi si è perso tutto quello che era il ricordo della sincopata nella musica funky. Si è perso il valore di sentire... Ci sono dischi di musica disco che suonavano con musicisti veri. E sono stati eliminati. Sono rimasti in pochi. Nile Rodgers è la prova, così come i Daft Punk che lo hanno riesumato. Anche se per me è lui che ha riesumato loro. Ha dimostrato nel corso degli anni di essere una realtà importantissima, perché dagli Chic alle Sister Sledge, passando per David Bowie e finendo ai Daft Punk, lui è presente in ogni decennio. Questo purtroppo non lo hanno capito in tanti. Posso dire però, che chi lo ha fatto ha comunque avuto un grande successo. The Weeknd ad esempio, è uno che prende a piene mani dagli anni '80, gli ultimi dischi sembrano cose di brit pop, pur essendo lui un artista americano. Attinge al pop dei bianchi di quell'epoca, perché quello dei neri era più soul. Questa è un'altra cosa in cui siamo stati fortunati, il fatto di essere sempre al centro di tutto, anche geograficamente. Noi abbiamo attinto dall’America, dall’Inghilterra al contrario invece di quello che ha fatto l’America. Io che vivo qui a Miami, posso dirlo che non si sono fatti influenzare. L’America aveva la sua musica, i suoi artisti, e non gli interessava di importare la musica da altre parti. Mi ricordo che già negli anni ’80, quando venni qui, tante cose inglesi che da noi erano molto famose, loro non le conoscevano proprio".
Ritorniamo un po' al discorso dei dj. Diceva che all’epoca chi lo faceva era quasi visto come un nerd. Ora invece a cominciare dai personaggi del Grande Fratello, a finire dagli influencer, sono diventati tutti dj. Ma è davvero così semplice fare questo mestiere?
“Ci ho pensato tanto a questa cosa, e credo che ci siano due aspetti. Il primo è quello di atteggiarsi. Il dj è diventato ora, quella che era la figura del calciatore all'epoca. Oggi mi sembra che stia succedendo la stessa cosa, e lo dico ridendo. I dj ormai fanno i concerti, vanno in giro con gli elicotteri e gli aerei privati, anche se spesso si fanno solo le foto negli aeroporti, e poi dicono che l'aereo è loro. Per questo tutti ora vogliono fare i dj. Dall’altra parte, mentre prima la starlette di turno o il personaggio uscito da qualche reality, andavano nei locali per farsi le foto a pagameento con la gente, ora prende una chiavetta e mette la musica. Si mette in mostra e guadagna anche soldi. Ma questo non vuol dire realmente essere un dj”.
È una visione un po’ desolante. C’è secondo lei qualcuno delle giovani generazioni, che somigli a quei pionieri che eravate voi?
“Ce ne sono tanti di giovani che anche musicalmente e non solo tecnicamente, sono molto bravi. C’è tutta la scena elettronica, quella berlinese, però è tutto un genere musicale che pur avendo un grande seguito, non è messo in risalto come invece succede per il panorama del Reggaeton o dell’ Hip Hop. La colpa per me è sempre delle radio e dei media come la televisione, che non danno spazio al famoso movimento underground. I ragazzi giusti ci sono. Quelli veri, che si vestono bene, che sono carini e ascoltano musica con nuove sonorità anche che si ispirano al passato. Ci sono colonne sonore di film bellissime, ma sono tutte cose che alla fine vengono definite di nicchia. Andrebbero invece messe davanti a tutta la spazzatura che viene proposta, e che mi dispiace dirlo, portano avanti anche le radio. Il mondo è diventato quello dei cafoni. Non è che voglio fare lo snob, è che in tutti i settori, anche in quello della moda, vedo proprio tanta volgarità e cafonaggine. Se questo significa essere vecchi, io sono contento di esserlo in un mondo dove non c'è più qualità”.
È vero che in una discoteca dell'epoca dove lavorava una sera non riconobbero Jack Nicholson e non volevano farlo entrare?
"Successe all'Histeria, ma non ci si deve stupire perché non è che Jack Nicholson arrivò con le guardie del corpo. Venne a piedi per fatti suoi, perché probabilmente si era stancato di stare nel suo hotel in Via Veneto. Quando alla fine entrò, nessuno gli si lo avvicinò neanche per chiedegli l'autografo”.
Altri personaggi di cui si ricorda?
"In quegli anni succedeva il contrario di quello che si verifica oggi. La discoteca era vista un po' come un rifugio. Innanzitutto si faceva una grande scrematura iniziale ed entrava solo chi era 'figo'. C’era una sorta di dress code. Succedeva al Gilda, ma anche all'Histeria o l'Easy Going, per questo c'era dentro tutta gente pazzesca. Magari mentre passavi un disco degli Spandau Ballet, c’erano loro in pista. O i Duran Duran, David Bowie o Quincy Jones. Io al Gilda ho fatto ballare per mezz’ora James Brown, e meno male che ci sono le foto, altrimenti sembrerebbe impossibile. Erano tutte persone tranquille. Se oggi arriva una starlette si mobilita il mondo, con guardie del corpo fotografi e auricolari. Mi ricordo proprio di David Bowie che era arrivato insieme alla compagna dell’epoca, una ballerina del suo concerto. Era insieme a John Taylor dei Duran Duran con un’altra ragazza. Si sono seduti sui divanetti a guardare la gente che ballava. Sono cose che quando si raccontano sembrano impossibili, per il semplice motivo che ora non le vedi più. Era un po' come la The Factory di Andy Warhol, dove si stava scrivendo la storia. Jovanotti nel docufilm l'ha raccontata bene questa cosa: "Noi facevamo le cose vivendole, non immaginandole". E quando le cose si vivono non ti rendi conto dell'importanza che hanno. Molti personaggi di questo documentario che ho intervistato sono miei amici. Ora sono diventati molto importanti, ma hanno iniziato la carriera come dj. A cominciare radiofonicamente da Fiorello, passando per Jovanotti, Roberto D'Agostino, che oggi è 'Dagospia' ma un tempo era un dj e lo racconta con orgoglio. E tutti non lo facevano con un doppio fine, come quello del guadagno o della visibilità, ma solo per passione".
Ha detto che questo docufilm è un ringraziamento a Roma ma io aggiungo, anche ad tempo che non c'è più?
“Un po' tutte e due le cose. La parte di Roma è quella che mi manca, quella della grande bellezza, che per me è ancora così. Però c'è anche amarezza, per quel periodo che effettivamente non c'è più. Per questo ho capito che bisognava fermarlo e cristallizzarlo con questo docufilm. Ho sempre conservato tutto con intelligenza e lungimiranza, e ad un certo punto mi sono reso conto che tutto quel materiale non potevo conservarlo in maniera feticistica. Avevo iniziato a montarlo con Marco Trani tanti anni fa, poi mi sono fermato dopo la sua scomparsa. Durante il Covid ho pensato di riprendere il tutto, girando delle nuove cose e dandogli un altro taglio. Secondo me Roma doveva avere un racconto del genere, e qualcuno doveva farlo.
Per chiudere, tornando alla sua domanda iniziale, ho respirato e vissuto quel periodo, e le interviste come quella di Lorenzo Jovanotti non sono state altro che un po' delle chiacchiere amarcord, tra due persone che hanno vissuto le stesse cose e parlandosi le ricordano”.
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