Sciamano e ubriacone, istrione e pagliaccio, genio e scrittore-regista-sceneggiatore dilettante, grande cantante per caso, maledetto di prima o seconda mano, leggenda un po' dimenticata... Chi era Jim Morrison?
Convinto di essere posseduto dallo spirito di un indiano morente incrociato sul ciglio della strada, da bambino, durante un viaggio in macchina con i genitori, James Morrison, figlio di un pezzo grosso della marina americana, è tutto nelle pagine The Collected Works of Jim Morrison: Poetry, Journals, Transcripts, and Lyrics (Harper, pagg. 432, euro 42,27), il più grande, nel senso di mastodontico, omaggio a cinquant'anni dalla morte (1943-1971). Per la prima volta, sono riunite tutte le carte superstiti di Morrison, un vero grafomane. Poesie, canzoni, poemetti, sceneggiature, racconti e raccontini. Al gigantesco libro, ricco di fotografie e riproduzioni di autografi, si aggiunge un mini-box di sei cd in cui star della musica e della letteratura leggono gli scritti di Morrison.
L'immagine da perenne sballato, divulgata dal pur bel film di Oliver Stone, The Doors, con Val Kilmer nei panni di Jim, crolla subito. Forse le parole di Morrison non rendono molto sulla carta, ma interpretate da lui, o da gente come Patti Smith, assumono subito fascino. Semplicemente sono fatte per essere ascoltate e possiamo immaginare Morrison che le compone ad alta voce. Le perle sono la perturbante prosa lirica di The Eye, l'occhio, una per niente scontata riflessione su cosa significa «vedere», il soggetto cinematografico di The Hitcher, l'autostoppista, un noir violentissimo dal retrogusto metafisico, e alcuni versi sparsi. Questi ultimi, prima autopubblicati e solo in seguito al successo venduti a una casa editrice, hanno avuto una influenza tutta da esplorare su emuli e ammiratori di Morrison. Ian Curtis dei Joy Division ne ha fatto tesoro in più di un brano. Iggy Pop ne ha tratto l'ispirazione per il suo maggior successo, The Passenger. Difficile pensare che Jim, benché famoso per i suoi eccessi, abbia potuto mettere assieme una tale mole di scritti in perpetua sbornia o con la testa smarrita nelle fantasie da acido lisergico.
Jim Morrison non pensava di cambiare la storia della musica rock. Leggeva Arthur Rimbaud e William Blake: a proposito, il nome della band, The Doors, Le Porte, non viene, come molti pensano, dal saggio di Aldous Huxley, Le porte della percezione, ma da un passo appunto di William Blake, da cui lo stesso Huxley aveva tratto spunto: «Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all'uomo com'è: infinita».
Una carriera da scrittore sembrava poco plausibile. Morrison allora prova con il cinema, ama Godard e la Nouvelle Vague: respinto con perdite. Le cose all'università della California di Los Angeles non promettono bene. Però durante una lezione conosce Ray Manzarek, brillante pianista, giovane ma già veterano della scena musicale cittadina. Manzarek prova con il batterista John Desmore e il chitarrista (e paroliere, Light My Fire non è di Jim Morrison) Robbie Krieger. Il nuovo amico, Jim, è invitato a cantare. Funziona subito. Dopo pochi concerti, il boss della Elektra Records compare nei camerini con una immediata proposta di contratto. Le prime prove dei Doors risalgono alla fine del 1965. Il 15 agosto 1966 sono accasati all'Elektra. Il 21 agosto sono licenziati dal mitico locale Whisky a Go Go per colpa del testo edipico di The End. Il 26 agosto entrano in sala d'incisione. Ne escono sei giorni dopo con i nastri dell'omonimo debutto, un capolavoro che esce il 4 gennaio 1967 e vola al secondo posto (al primo ci sono i Beatles di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band). Qualche giorno dopo, il singolo Light My Fire va in cima alla classifica e ci resta a lungo. I Doors sono stelle a tutti gli effetti, in pochissimo tempo. La partecipazione all'Ed Sullivan Show, celebre programma televisivo, è uno scandalo per gli accenni allo sballo da acido. I concerti registrano incidenti a New Haven, Jim Morrison è arrestato sul palco (indecenza e oscenità) e pestato a sangue nel retro. I Doors si esibiscono con la polizia accanto. Due anni dopo, a Miami, nuove accuse, ancora oscenità, processo e libertà su cauzione. Nelle 430 foto scattate quella sera, nessuna mostra Morrison in atteggiamenti volgari.
Il cantante comunque beve troppo, ingrassa visibilmente, il secondo album Strange Days va benissimo, il terzo e il quarto iniziano a mostrare qualche crepa. Poi il ritorno di forma con Morrison Hotel e soprattutto L.A. Woman. Quest'ultimo rimarrà imprevedibilmente il canto del cigno, Morrison muore a Parigi (3 luglio 1971) nella vasca da bagno. Arresto cardiaco, ma non viene effettuata alcuna autopsia. Il cadavere l'hanno visto in due, fidanzata e dottore: nasce la delirante ipotesi che Jim sia vivo e abbia inscenato la sua fine per uscire dallo show business.
In fondo, Jim Morrison è riuscito a diventare ciò che le sue opere volevano creare: nuovi miti. Sulle spoglie dei miti del passato senza ignorare gli orrori del presente. Così troviamo lo sciamano, il tramite con gli dei che guarisce l'intera tribù, ma anche le divinità azteche e il serpente biblico; l'esortazione a recuperare la spiritualità, in qualunque forma; l'attesa di un messaggero divino; il deragliamento dei sensi di Rimbaud; la bomba atomica; la guerra in Vietnam. È l'America degli hippies e del movimento studentesco, delle droghe lisergiche e di Wooodstock. Ma anche l'America dove vengono assassinati uno dopo l'altro JF Kennedy (1963), suo fratello Bob (1968) e Martin Luther King (1968). Per sé, Morrison ritaglia il ruolo di profeta, con un filo di ironia ma neanche troppa: «Io sono una guida al labirinto». Consapevole del suo ascendente sul pubblico, Morrison si interroga sul Potere, in particolare quello della Parola. Proprio Parola, Potere e Trance sono le chiavi per aprire la porta su Jim Morrison.
Morrison è considerato un poeta dilettante. Può darsi ma il suo mondo è affascinante e ricorda da vicino, in piccolo, quello dello scrittore William Burroughs, l'autore del Pasto nudo e La macchina morbida.
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