Per gentile concessione dell'editore Minimum Fax pubblichiamo un estratto del libro di Antonio Iovane dal titolo "La seduta spiritica". Il volume scandaglia la storia della seduta spiritica di Zappolino, il 2 aprile 1978, durante la quale un gruppo di professori universitari evocò don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira per scoprire dove fosse tenuto lo statista Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse. E naturalmente si parla anche e soprattutto di quello che accadde dopo la seduta spiritica.
Sono a Lecce per parlare del Brigatista al festival Conversazioni sul futuro, e il caso ha voluto che a presentarlo sia Giovanni Pellegrino, in virtù della familiarità col tema e della coincidenza geografica: Pellegrino vive appena fuori Lecce.
Ha ottantun anni e ha smesso con la politica, è tornato a essere l’avvocato Pellegrino. Al telefono gli ho chiesto di vederci prima della presentazione del libro, vorrei qualche chiarimento. L’ex presidente della Commissione stragi non mi chiede di cosa si tratti, la sua unica raccomandazione è questa: vediamoci dopo Lecce-Juventus.
Ora sediamo all’esterno di un bar in Galleria Mazzini, davanti alla libreria della presentazione. Il Lecce è riuscito a pareggiare 1-1 con la Juve e Pellegrino sembra soddisfatto. Chiede un’acqua brillante. Lo informo che vorrei affrontare l’argomento della seduta spiritica, Pellegrino non sembra sorpreso.
«Cosa vuoi chiedermi?»
«Vengo subito al punto. Nelle audizioni, a proposito della ricerca di Moro nel paesino di Gradoli dopo la soffiata, lei parla di “irruzione militare” o di “blitz militare”».
«Sì».
«Avvocato, lei sa che questa cosiddetta “irruzione militare” non ci fu?»
Mi prendo una piccola pausa teatrale per osservare la sua reazione; Pellegrino è impassibile. Gli dico che il rapporto del vice questore aggiunto di Viterbo, Fabrizio Arelli, si limitò a parlare di un «accurato rastrellamento ispezionando varie case coloniche in stato di apparente abbandono con le relative dipendenze, nonché grotte e ripari naturali».
«Una ventina di carabinieri che perlustrano varie case coloniche, avvocato. Non è la stessa cosa di un’“irruzione militare”».
Pellegrino allunga il collo sui miei appunti.
«Qualcuno ce l’avrà raccontata così. Io lavoravo sulle audizioni, su quello che ci veniva detto nelle audizioni. E qualcuno può averci parlato di irruzione militare».
«Nelle audizioni, avvocato, ne parla solo lei. Ma non è tutto. Nell’audizione di Alberto Clò lei dice: «Il 6 aprile la televisione trasmise le immagini dell’irruzione militare nel paese di Gradoli: serbo un ricordo molto preciso, ricordo ancora le tute mimetiche e questo paesetto con le sue casette dove si vedevano gli uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione; un intero paese fu perquisito. Se qualche collega ritiene che il mio ricordo sia sbagliato, lo dica». Lei parla quindi di ricordi di immagini trasmesse in televisione, e nessuno dei presenti ebbe da obiettare. Ne parla anche nel suo libro intervista Segreto di Stato. Ma il professor Clò non ricordava nulla di quanto lei andava dicendo, e aveva ragione. Non solo perché l’irruzione militare non ci fu, ma anche perché nessun telegiornale diede in quei giorni la notizia della perlustrazione nel paese di Gradoli. Sa quando uscì la notizia?»
«No».
«Solo il 22 aprile, sull’Unità, quattro giorni dopo la scoperta del covo di via Gradoli grazie al famoso microfono della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e puntato su una fessura del muro».
Pellegrino riflette un attimo, un ambulante ci chiede se vogliamo comprare dei fiori. È il momento di chiederglielo.
«Avvocato, lei ha visto Il caso Moro?»
È il primo film sul dramma, 1986: Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. È tratto da I giorni dell’ira del giornalista americano Robert Katz. Protagonista è Gian Maria Volonté. Dieci anni prima, quando girava la versione cinematografica di Todo modo, il regista Elio Petri era stato costretto a buttare i primi due giorni di girato: Volonté assomigliava troppo a Moro. Adesso il problema non si pone dal momento che Volonté deve interpretare Moro.
C’è, nel film, una scena in cui la spagnola Margarita Lozano, che interpreta Eleonora Moro, si rivolge a Pino Ferrara, nella parte di un colonnello dei carabinieri:«Ho saputo questa mattina di una strana seduta spiritica a Bologna, dove si è fatto il nome di Gradoli, collegato alla prigione di mio marito. L’ha saputo anche lei?»
«Certo, non tralasciamo nessuna pista».
«E che avete fatto?»
«Abbiamo localizzato un paesino nel viterbese che si chiama Gradoli».
«Un paese? Non potrebbe trattarsi di una strada di Roma?» «Oh, no, abbiamo già guardato, non c’è nessuna via Gradoli sulle pagine gialle».
La scena successiva mostra la Porta di Gradoli e il cartello Benvenuti a Gradoli. In alto un elicottero della polizia.
Sirene.
Due auto della polizia precedono tre blindati seguiti da altre due auto. Ne escono poliziotti in mimetica, o tenuta antisommossa, brandiscono pistole e mitra. Ci sono anche unità cinofile. Percorrono le strade del paese, fanno uscire gli abitanti, sfondano a pedate le porte delle cantine.
Il colonnello dei carabinieri arriva su una jeep, si informa sulla perquisizione con un ufficiale della polizia:
«A che punto è l’operazione?» «È in pieno svolgimento».
«State perquisendo le cantine?» «Soprattutto quelle, colonnello».
Terminata l’operazione, un altro ufficiale fa rapporto al colonnello:
«Abbiamo setacciato casa per casa, ma dell’onorevole Moro nessuna traccia».
«Sì», mi risponde Pellegrino, «l’ho visto. Li ho visti tutti, i film su Moro».
«Quello è l’unico documento visivo in cui si può vedere un’irruzione militare nel paese di Gradoli, con tanto di “uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione”. Non può essere che sia stato semplicemente suggestionato da quel film?»
Pellegrino beve un sorso di acqua brillante.
«Può darsi, potrebbe pure essere. Non ci avevo mai pensato». L’errore di un film potrebbe essere diventato l’errore della realtà. Una grande suggestione collettiva. «Frutto di una nevrosi collettiva. O di una paranoia collettiva. O, per essere più precisi, di un romanzo collettivo».
«Avvocato, c’è qualcos’altro che vorrei chiederle. Mi è venuto un sospetto: ma se davvero si voleva far giungere l’informazione Via Gradoli, perché confondere chi sarebbe potuto intervenire e trovare il covo? Perché - aggiungendo riferimenti geografici come Viterbo, VT, Bolsena – far ricadere l’attenzione non sulla strada romana, ma sul paesino di Gradoli?»
Pellegrino mi osserva, interlocutorio.
«E quindi? Qual è la tua idea?»
Devo procedere con ordine. Parto da un punto: il covo di via Gradoli andava bruciato, probabilmente perché era stato scoperto. Anche il giornalista dell’Espresso, Mario Scialoja, lo dice in un’audizione con lo stesso Pellegrino:
[...] i brigatisti che stavano in via Gradoli (la Balzerani e altri) si erano resi conto che erano stati seguiti o sorvegliati [...]. A mio parere si erano posti questo problema: non bastava abbandonare il covo, perché lì si riunivano le Brigate Rosse che venivano da altre città d’Italia. Dal momento che non potevano telefonarsi per darsi un appuntamento, avevano prefissato delle riunioni secondo certe scadenze (questo lo hanno raccontato tutti); secondo me, uno di quei posti in cui si riunivano in modo prefissato era proprio in via Gradoli. Ebbene, se quel covo era sorvegliato e magari dopo cinque giorni o una settimana là doveva tenersi una riunione prefissata (quindi doveva arrivare gente da Torino, da Milano o da Firenze), come si poteva evitare che la polizia arrestasse tutti quelli che arrivavano senza sapere niente, dal momento che non potevano essere avvertiti?
Era un’epoca senza cellulari e tra le tecniche usate dai brigatisti c’era quella della compartimentazione: i componenti delle singole cellule non si dovevano conoscere tra loro. In questo modo, se catturati, non avrebbero potuto tradire i compagni.
Mi sono convinto che l’informazione Gradoli ̧ unita a Viterbo, VT, Bolsena, non avesse lo scopo di allarmare la polizia, ma le stesse Brigate Rosse. Chi non ne sa nulla, infatti, da quegli indizi non può che pensare al paesino in provincia di Viterbo e sopra il lago di Bolsena. E in questo occorreva dar ragione a Cossiga quando, in audizione, aveva detto a Pellegrino:
[...] se a me parlano di Giovanni Pellegrino, io penso subito a lei, signor presidente; può darsi che nella storia vi sia un Giovanni Pellegrino abate, ma se mi nominano Giovanni Pellegrino, non vado sull’enciclopedia a vedere se è l’abate.
Ma un brigatista che conosce il covo – per esempio Mario Moretti – decifra solo e unicamente la parola Gradoli collegandola alla strada. È quindi sul paesino del viterbese che l’autore della soffiata voleva fosse concentrata l’attenzione, e non su via Gradoli. L’informatore sperava così che la notizia si sarebbe diffusa in tv, raggiungendo coloro che abitavano nel covo. Moretti e gli altri, vedendo dalle immagini che la polizia perlustrava il paesino di Gradoli, avrebbero capito, avrebbero pulito il covo e l’avrebbero abbandonato. Peccato che la risonanza mediatica della perlustrazione di Gradoli fu nulla. A quel punto, e solo a quel punto, si decise di bruciare il covo in un altro modo: col microfono della doccia diretto verso una fessura del muro, cosicché il piano di sotto venisse allagato, gli abitanti chiamassero i vigili del fuoco e così via. Scialoja non esclude che l’infiltrazione d’acqua in via Gradoli possa essere stato davvero un incidente. Ma il suo convincimento è un altro:
[...] bisognava fare scoprire il covo in modo clamoroso, per far sì che si sapesse che era un covo delle Brigate Rosse. Ecco perché hanno provocato la perdita dell’acqua [...]. Il covo fu abbandonato, ma fu lasciato tappezzato di manifesti delle Brigate Rosse (credo avessero lasciato anche una pistola) proprio per far capire che quello era un covo delle br. Il risultato fu ottenuto, perché il giorno dopo tutti i giornali riportavano la notizia che era stato scoperto il covo delle Brigate Rosse di via Gradoli e quindi l’allarme era stato dato.
La seduta spiritica, in pratica, doveva avere la stessa funzione che avrebbe avuto, sedici giorni dopo, il microfono della doccia del covo.
Giovanni Pellegrino resta in silenzio. Riflette.
Beve un altro sorso di acqua brillante. Altri sei secondi di silenzio. «Potrebbe essere possibile».
Riflette ancora.
«È probabile che io non abbia fatto il ministro per questa storia della seduta spiritica».
«Perché?»
«Perché mi misi contro Prodi. Prodi, avendo saputo che in una proposta di relazione intendevo parlare di questo episodio, mi telefonò per chiedermi di cancellarla. Io non mi sentivo di farlo, gli uffici della commissione già conoscevano quel testo, pensai: come faccio a cambiarlo adesso? Ma Prodi non voleva assolutamente che si tornasse su quell’argomento. Da quel momento in poi non fui visto con occhio del tutto amichevole, diciamo così».
«Sta dicendo che Prodi mise il veto sul suo nome?»
«Io tendo sempre a esagerare, ma tutto sommato, se non fosse stato per questo episodio, almeno il sottosegretario in un suo governo avrebbe potuto chiedermi di farlo».
L’avvocato termina la sua acqua brillante: è quasi ora di raggiungere la libreria per la presentazione. Ma prima di andare aggiunge:
«Se fosse vera la tua ipotesi che si trattava di un modo per dare un segnale d’allarme per bruciare il covo, a diffondere la notizia di Gradoli potrebbero essere stati i servizi segreti».
«Che quindi non volevano salvare Moro...»
«Già, e volevano avvertire le br che il covo era stato scoperto».
«Oppure», aggiungo io, «potrebbero essere state le stesse Brigate Rosse a far trapelare l’informazione per avvertire i frequentatori del covo che avrebbero dovuto abbandonarlo».
«Sì, sono tutte ipotesi intriganti».
«Se fosse così, però, vorrebbe dire che i protagonisti della seduta spiritica sono stati strumenti inconsapevoli delle br».
«Temo di sì».
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