D'Amato: Montezemolo ci usa per i suoi fini

Duro attacco dell'ex presidente di Confindustria a Luca Cordero: "Faccia proposte, non demagogia. Non sono andato all'assemblea perché non mi piaceva vedere l'Associazione usata per interessi personali specifici"

D'Amato: Montezemolo ci usa per i suoi fini

Lei, Antonio D'Amato, già presidente di Confindustria, giovedì 24 maggio non era all'assemblea della sua associazione.
«Non sono andato perché non mi piace vedere Confindustria usata non nell'interesse di tutte le imprese ma per interessi personali specifici. E, purtroppo, quest'ultima relazione conferma questa mia convinzione. È una deriva in atto da tempo. Sono restato così al mio posto di lavoro».
L'appello all'orgoglio delle imprese ha avuto un consenso caloroso della base confindustriale.
«Hanno fatto bene ad accogliere con entusiasmo gli appelli all'orgoglio di fare impresa. È un giusto riconoscimento al ruolo civile, economico per lo sviluppo del Paese che tanti industriali esprimono nel loro lavoro. Si risponde così a campagne di demonizzazione e a comportamenti che il governo ha riservato alle imprese negli ultimi mesi. Anche molte delle cose dette da Luca Cordero di Montezemolo sulle gravi inadeguatezze della politica sono condivisibili. Certo, su molti di questi temi Silvio Berlusconi ha detto cose analoghe. Anche Giuliano Amato e Massimo D'Alema avevano recentemente preso posizioni simili. Talvolta si sono presentate analisi scontate. Il problema però non è tanto che si siano rincorsi facili effetti d'immagine cavalcando l'onda dell'antipolitica. Non quadra soprattutto che questo tipo di argomentazioni siano state il cuore dell'ultima relazione del presidente di un'associazione a cui andava presentato un bilancio».
Confindustria non deve fare politica?
«Deve farla offrendo proposte, progetti, una base per negoziati con gli interlocutori fondamentali del mondo delle imprese, sindacati e politica. La Confindustria non può essere, però, luogo di agitazione generica. Il presidente di Confindustria non è un opinionista».
È sicuro che un po' di sons et lumières non siano più utili per fare pesare le ragioni dell'impresa?
«È proprio la capacità di affrontare concretamente i temi in campo che dà la possibilità di trovare le soluzioni. Promuovere riforme, se lo si vuole davvero, è difficile ma non impossibile. Consideri, la sfida che abbiamo portato sulle questioni del mercato del lavoro. Sembrava un terreno su cui non si potesse procedere. Invece abbiamo conquistato la Legge Biagi che ha modernizzato la società italiana e preparato le basi per il rilancio delle imprese. Con la concretezza si stimolano le forze riformiste presenti nel sindacato e nella politica. Così si esprime l'ambizione di essere classe dirigente. E si acquista l'autorevolezza e il rigore morali che rendono credibili le denunce. Altrimenti si finisce per essere solo demagoghi, riformisti a parole come si rimprovera, con molte ragioni, a tanti politici».
Insomma per dare lezioni bisogna sapere fare il proprio mestiere.
«E il mestiere della rappresentanza degli imprenditori ha una specificità: la capacità di sostenere proposte concrete sulla base del mandato che si è ricevuto. Il che vuol dire incalzare il governo sulle strade della riforma per la competitività e impegnare il sindacato in un confronto vero, promuovendo l'innovazione, anche solo con chi ci sta».
Ma non si finisce per alimentare troppi conflitti?
«Confindustria non deve cercare il conflitto per il conflitto, ma non può rinunciare a sfidare la parte più chiusa del sindacato. Altrimenti si finisce nella situazione di oggi quando un consociativismo paralizzante blocca qualsiasi scelta. Certo, un agitazionismo generico può dare qualche vantaggio ma solo per chi rinuncia a perseguire riforme nell'interesse di tutte le imprese, e punta solo su provvedimenti utili a questa o a quella impresa. Se si persegue questa linea, poi è evidente che quando viene il tempo dei bilanci si preferisce buttarla in politica e fare un comizio. Quando nelle trattative sulla Finanziaria si è attenti principalmente ai prepensionamenti per questa azienda o alla rottamazione dei prodotti di questa e quell'altra azienda, è evidente che non si fanno gli interessi di tutte le imprese ma solo di pochissime».
Ma il taglio del cuneo fiscale?
«Su questo rispondo solo: se, come e quando».
Qualche imprenditore è preoccupato per le reazioni della «politica»...
«Sabato scorso al convegno sulla famiglia, Prodi ha pronunciato parole poco eleganti contro la Legge Biagi (legge 30, 31, 32, ha detto). Si intravedono interventi, con spirito di ritorsione, contro la flessibilità del mercato del lavoro, che tanto ha contribuito all'aumento dell'occupazione. Se non si lavora sulla progettualità concreta ma solo sulla denuncia generica, la risposta della politica può essere pericolosa per le imprese».
Anche le relazioni industriali sembrano segnalare qualche difficoltà.
«Si guardi alle proposte contrattuali dei metalmeccanici, che paiono tornare ai vecchi vizi degli anni Settanta: egualitarismo, automatismi, scarsi incentivi alla produttività. Se la Confindustria subisce un consociativismo senza progettualità, se non è in grado di impegnare la controparte su progetti di modernizzazione, allora anche gli spazi riformisti nel sindacato si chiudono. D'altra parte è l'insieme di Confindustria che si sta appannando: avevamo un Centro studi invidiato in tutta Europa, avevamo progetti articolati e precisi su tutti i temi di interesse delle imprese. Ora prevalgono slogan banali, peraltro applauditi dalla stampa amica».
Già, la stampa amica.
«Oltre alla casta dei politici, c'è anche quella di un piccolo establishment composto da qualche grande impresa, qualche grande banca e qualche grande giornale, che intervenendo in modo coordinato restringe la dialettica tra soggetti diversi: risorsa fondamentale in una società aperta. È un modo di funzionare che non ha futuro ma che può dare alla testa. E chi parla di un governo dei migliori, mettendosi nel pacchetto, un po' di testa l'ha senza dubbio persa».
Però l'entusiasmo dell'assemblea di Confindustria è innegabile.
«Per gli imprenditori Confindustria è la loro casa, un'istituzione che ha dato molto all'Italia. È giusto che ne difendano la forza. Il mestiere dell'imprenditore, poi, non è fare politica, ma inventarsi prodotti, conquistare mercati, far quadrare i bilanci: nel rapporto con la rappresentanza delega molto.

Quando si tratta di fare un bilancio, quello che non gli è stato presentato il 24 maggio, ognuno, però, pensa con la sua testa e io credo che prevarrà l'esigenza di tornare a un'organizzazione capace di progettualità concreta nell'interesse di tutte le imprese».
E lei tornerà a frequentare l'organizzazione?
«Tornerò quando alla presidenza ci sarà un imprenditore vero».

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