Daniele Del Giudice, storia di un'amicizia unica e normale. Con e senza parole

Roberto Ferrucci racconta il suo legame profondo con lo scrittore morto nel 2021

Daniele Del Giudice, storia di un'amicizia unica e normale. Con e senza parole

Basta leggere il risvolto di copertina, a firma Tiziano Scarpa, per rendersi conto che Il mondo che ha fatto di Roberto Ferrucci (La nave di Teseo, pagg. 380, euro 20) è un libro speciale. Dedicato da Ferrucci al grande amico e maestro Daniele Del Giudice e alla sua straziante vicenda umana, Il mondo che ha fatto non è però una biografia, e nemmeno un diario, e nemmeno - a rigore - un semplice mémoir, della serie la mia vita con.... È molto di più: è un giornale dell'anima, un magnifico romanzo d'amore, e un altrettanto magnifico romanzo sull'amore. E, se posso aggiungere, una fantastica guida di Venezia.

Classe 1960, undici anni meno del grande scrittore suo concittadino, Ferrucci ne ha quattro, decisivi, meno del sottoscritto. Avere avuto un fratello suo coetaneo o quasi mi ha persuaso, nel corso del tempo, dell'esistenza di una cesura tra la mia e la sua generazione. Io mi sento parte della stessa generazione di Del Giudice (1949-2021), vero apripista - con Pier Vittorio Tondelli, Walter Siti e altri - di una nuova letteratura, fatta di personalità letterarie assai diverse tra loro ma tutte accomunate dall'appartenenza a una specie in rivolta nei riguardi di un passato nobile ma ben intenzionato a morire senza eredi.

Una generazione, se così posso dire, che indugiava perplessa e inquieta sull'uscita del Novecento, desiderosa di lasciarsi alle spalle un secolo che aveva voglia di morire (ricordate la «fine della storia» di Fukuyama?), con le sue categorie storiciste, i suoi miti traballanti (la sopravvalutata Resistenza), il suo cupo esistenzialismo. Se la mia generazione si è dovuta reinventare maestra di sé stessa, Ferrucci e altri hanno potuto poi lavorare il materiale che noi avevamo iniziato a sbozzare. Tra noi e lui sparisce l'ossessione stilistica, la «crudeltà di stile» (Citati) che è il nostro debito al secolo breve. Ricordo in proposito il mio primo incontro con Del Giudice, nel 1994, a Milano, dove lo avevo invitato per una lectio magistralis. Lui, salutandomi, mi disse che «gli scrittori come te sono necessari nella nostra letteratura» - mi riconosceva un posto specifico, insomma, nella mappa letteraria: una mappa che lui stesso avrebbe contribuito a cancellare.

Il libro di Ferrucci ha come pretesto il racconto di una grande amicizia, che comincia nel 1985, quando un giovane universitario (la descrizione del tipo è perfetta) incontra uno scrittore esordiente, suo concittadino, di cui tutti parlano. Allora i giornali contavano, e le pagine culturali erano alla caccia di «casi» letterari, perché sentivano il cambio d'epoca alle porte. Lo scrittore è a sua volta giovane, trentasei anni, e del suo libro, Lo stadio di Wimbledon, si parla dappertutto.

Da quell'incontro segue un rapporto che Ferrucci tratteggia con enorme pudore e delicatezza, grazie ai quali una grande congerie di fatti piccoli e meno piccoli, di omissioni, di timidezze eccessive poi pagate col rimpianto, di avventure comuni piene di commosso humour - come il capitolo dedicato al primo volo (Del Giudice era pilota di aerei, e al volo dedicò il bellissimo Staccando l'ombra da terra) - perde ogni traccia aneddotica per agglutinarsi in un'avventura amorosa nel senso dantesco della parola (stranamente, lo ammetto, trovo che il libro meno dissimile da questo sia proprio Vita nova), dove il processo che conduce un uomo a diventare scrittore perde ogni connotato tecnicistico, ogni velleità di carriera e di prestigio, per rivelarne la natura puramente umana, affettiva.

Sul libro grava il crudele destino di Del Giudice che, come scrive bene Tiziano Scarpa, mostra come «siamo vulnerabili anche nei nostri presidi più intimi». A poco a poco una malattia spietata svuota quest'uomo eccellente, che piano piano (non senza una disperata lotta, il disperato tentativo della parte sana di tenere a bada il feroce nemico) dimentica ogni volto, dimentica sé stesso, la propria storia. Ferrucci torna periodicamente su questo sciagurato destino, ma anche qui lo fa con una delicatezza speciale, glissando quando può sull'aspetto del corpo, sugli occhi, sulla lingua frantumata, e preferendo di tanto in tanto riportarci nella stanza nella quale lo scrittore visse, ignaro, gli ultimi dieci anni della sua vita. Ci fa entrare in quella stanza anonima, la riguarda da lontano, nel ricordo la individua dall'alto, durante un volo, quando essa non è ancora la pietosa prigione che diventerà.

Eppure, Il mondo che ha fatto non è un libro triste. La dura vicenda che racconta somiglia alla crudeltà che tutti, in un modo o nell'altro, conosciamo, e proprio per questo non ci descrive l'affetto, l'amore, l'amicizia e il dolore come fattori esclusivi di quel rapporto (è il limite delle biografie), ma ce li porge nella loro universalità, come realtà che possiamo tutti riconoscere nelle nostre vite.

La bellezza del libro sta nell'eccezionalità di un rapporto che non si ripiega su sé stesso ma ci offre lo spunto per penetrare il grande mistero della nostra normalità, che è il vero cuore di ogni narrazione: «ma quelle pagine piene di dubbi» scrive Ferrucci a proposito del maestro «piene di domande rimaste senza risposte, danno forma a un romanzo che ci dice che la scrittura e il narrare sono delle certezze. Che tutto è narrabile, anche se scrivi di uno che non ha voluto raccontare».

Proprio così, caro Ferrucci. Tutto. Ma quanta strada, per arrivare a questa umile, arresa consapevolezza.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica