"David Copperfield vive in America"

L'autrice premio Pulitzer ha ambientato il classico di Dickens negli Appalachi di oggi

"David Copperfield vive in America"

Demon Copperhead nasce negli Appalachi da una madre single, giovanissima e con problemi di droga. Il «demone testadirame» conosce la povertà, un patrigno terrificante, l'affido a famiglie tutt'altro che accoglienti, lo sfruttamento, la dipendenza a sua volta, la violenza e, beh, scopre anche l'amicizia, l'amore, il gusto del grande mondo e l'arte, non sempre facile, della sopravvivenza. Se tutto ciò, a partire dal nome del protagonista, vi ricorda David Copperfield, non sbagliate: Demon Copperhead (Neri Pozza, pagg. 654, euro 22), il romanzo, besteller negli Stati Uniti, con cui Barbara Kingsolver ha vinto il premio Pulitzer 2023 per la narrativa, è una riscrittura del capolavoro di Dickens, ambientata nell'America di oggi, quella della «cintura trumpiana» raccontata, per esempio, da J.D. Vance nel suo Elegia americana (diventato anche un film).

Barbara Kingsolver, come ha avuto l'idea di un David Copperfield contemporaneo?

«Stranamente, l'idea è arrivata nella forma di un fantasma che mi è venuto a trovare. Erano due anni che cercavo di pensare a una cornice per questa storia che volevo raccontare, sulla mia regione e su alcuni dei problemi che affrontiamo. È un materiale complesso e difficile e mi sentivo scoraggiata: orfani e povertà... chi vuole leggere di questi argomenti?»

E poi?

«Stavo finendo un tour di presentazioni nel Regno Unito e, per capriccio, decisi di trascorrere un weekend a Bleak House, la vecchia casa di Charles Dickens, che oggi è un albergo. Era ricco di atmosfera, vuoto, e mi sono sentita attratta verso il piccolo studio in fondo al corridoio, dove Dickens scrisse David Copperfield. Era tutto in ordine, come se lui si fosse appena alzato: la sua scrivania, le sue penne, i suoi manoscritti... Mi sono seduta e ho assorbito l'energia nella stanza».

Che tipo di energia?

«Era rabbia. Sentivo l'indignazione dell'uomo Dickens. Era cresciuto in povertà, aveva scritto degli orfani e del pregiudizio sociale: era la stessa storia che volevo raccontare io. E ho sentito che insisteva affinché lo facessi. La cosa più importante è che mi ha detto: Lascia che il ragazzino racconti la sua storia. E io ho detto okay, lascerò che il tuo ragazzino racconti la mia storia... E così, sulla sua scrivania, ho iniziato a scrivere la mia versione di David Copperfield».

Il romanzo di Dickens è autobiografico: lo è anche il suo?

«Fortunatamente no. Mio padre non è stato spedito in prigione per debiti e io da bambina non sono diventata una lavoratrice salariata, come Dickens. Ma sono cresciuta in un posto dove la povertà era ovunque, come anche il lavoro minorile. Avevo amici senza acqua corrente in casa».

Lei come viveva?

«Sono stata spesso presa di mira perché non ero giusta: i miei vestiti erano tutti di seconda mano e a volte andavo a scuola con le scarpe sporche di fango, perché vivevo in una fattoria. Conosco il terreno della vergogna adolescenziale e dell'odio di sé ed è tutta la vita che incontro ragazzini che affrontano le difficoltà di Demon. D'altra parte, in senso più ampio, questo è un libro personale, perché parla dei miei luoghi e della mia gente».

Gli Appalachi e i loro abitanti.

«Dall'esterno, raramente gli Appalachi sono visti come qualcosa di diverso da una barzelletta: stupidi montanari, gli hillbilly, e bambini tristi, poveri e scalzi... Ma siamo molto più di questo, e ci sono tante cose che amo della mia gente: il nostro essere pieni di risorse, il linguaggio e il senso dell'umorismo, i nostri legami profondi con la comunità. Per me essere una voce autentica per la mia cultura è una parte importante del mio lavoro».

Quali sono le somiglianze fra la Londra dell'Ottocento e gli Appalachi di oggi?

«È facile per le persone che vivono nel benessere chiudere gli occhi davanti ai problemi della povertà strutturale. A più di un secolo da Dickens abbiamo ancora dei ragazzini che si trovano in uno stato di bisogno disperato e che sono abbandonati dalla società».

Non è cambiato nulla?

«In teoria, oggi ci sono sistemi migliori della prigione per i debitori e delle case di lavoro per i bambini poveri: famiglie affidatarie, servizi di salute mentale e servizi sociali. Ma, quando una parte così esigua delle nostre tasse viene destinata a sostenere questi sistemi, essi non possono che fallire miseramente».

Chi è Demon?

«Il mio narratore, Demon, è un ragazzo tosto e divertente, nato dal lato sbagliato della sorte, che deve combattere per il rispetto di sé stesso e per il suo pane quotidiano. Quando gli chiedono che cosa voglia essere da grande, lui risponde: Ancora vivo. Di solito gli adulti lo deludono, e così pure i servizi sociali».

Quanto somiglia a David Copperfield?

«Demon soffre come David Copperfield, perché gli americani non affrontano il problema della povertà minorile né investono nella salute mentale e nel welfare infantile. Perciò le circostanze per i due protagonisti sono simili, ma il mio è molto meno ingenuo. Bene o male, i ragazzi di oggi hanno accesso a molte più informazioni che in epoca vittoriana. L'essere un ragazzo di mondo è il fardello di Demon, e il suo fascino: è in grado di offrire un'opinione ironica praticamente su qualsiasi argomento e di farti ridere. E, poi, di farti riflettere ancora un po', e piangere».

Perché ha scelto una storia così dura?

«Perché il nostro Paese sta deludendo i ragazzi come Demon, sia per ignoranza, sia per mancanza di compassione».

Un altro problema gravissimo che affronta è quello della tossicodipendenza.

«È una crisi con un impatto enorme nella mia regione. Ogni famiglia che conosco è stata colpita dalla dipendenza o ha perso qualcuno per overdose. È come se un terremoto avesse colpito il mio vicinato. Come avrei potuto non scriverne?».

Non aveva timore a confrontarsi con un classico?

«Non mi sono mai preoccupata che mi criticassero perché avevo riraccontato un classico. Innanzitutto, come ho spiegato, il signor Dickens in persona mi ha dato il permesso. Più del permesso, in realtà: l'ho sentito più come un ordine... perciò ho seguito la strada, e si è rivelata affidabile. Certo, dispiegare la trama del mio romanzo direttamente su quella di un altro che era già stato scritto è stato una sfida; ma è stato anche molto divertente, come far combaciare i pezzi di un puzzle».

Proprio nessuna paura delle critiche?

«Quando scrivo un libro non mi preoccupo mai di quello che le persone potranno dire o pensare in proposito: chiudo la porta del mio studio e scrivo, senza nessuno che guardi da sopra le mie spalle. Questo è l'unico modo per svolgere il mio lavoro più autentico».

Ho letto una recensione che dice: Demon è un ragazzino che nessuno vuole, ma i lettori lo ameranno. Una magia?

«Creare un narratore come lui è stato un atto di amore e un lavoro difficile e sorprendente, un po' come essere una madre. Mi sono seduta lì con Demon tutti i giorni, per due anni, ora dopo ora, ascoltando la sua voce, immaginando il suo dolore, alimentando quella bontà che riuscivo a scorgere nel cuore delle sue tenebre. E quindi no, non è una magia: è duro lavoro. Ma lo scopo dell'artista è cancellare sé stesso.

Non voglio che il lettore pensi a me che fatico qui alla mia scrivania, riscrivendo ogni frase quindici volte, sudando su ogni verbo e ogni parola. Voglio che mi dimentichi e che permetta a questo ragazzino affascinante di entrare nella sua testa. E, quando questo succede, allora ho fatto il mio lavoro».

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