Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo l'auto-stroncatura che chiude il libro di Davide Brullo, "Stroncature. Il peggio della letteratura italiana (o quasi). (Gog, pagg. 202, euro 12). Nel libro l'autore stronca Baricco, Scalfari, Murgia, Saviano, Augias, Ferrante, Giordano e molti altri...
Proprio di uno scrittore debole è ostinarsi all'ombra affermando che l'esito plastico di un insuccesso sia una scelta. Davide Brullo non ha scelto il bosco - come direbbero i suoi scrittori favoriti - non ha scelto il sottosuolo e la trincea: semplicemente, lì è stato relegato dalla sua modestia. Affabulatore metallico, profilo omerico, spirito combattivo, Brullo resta un dandy nonostante si creda un samurai, è un cittadino del mondo, uno scapigliato, uno che stava bene tra i camerieri del Bloomsbury Group, tra i meno talentuosi, una specie di Lytton Strachey con la fionda, maneggiata perché va di moda, un caricaturista, insomma. Voglio dire: a me Davide Brullo è sempre parso un bluff. L'indagatore biblico si rivela, ai miei occhi, un bulimico dell'ego, il fustigatore dei titani, in verità, fa il gioco dei potentati editoriali: Brullo è un estremista da tè delle cinque, prono al culto di Morfeo più che a quello di Orfeo, provate a leggere i suoi libri, dopo cena, e ve ne accorgerete. In effetti, quando lo si incontra, Brullo è bello, cordiale, sorridente. Ha tutto per essere felice, e se si ostina a rompere le scatole al prossimo - brevi colpi d'ago, mica di coltello - è per restare coerente a un «personaggio» sorto, forse, da una infanzia turbata (chi lo conosce, d'altronde?). L'ansia esibizionistica lo ha reso un poligrafo, uno scriba di provincia: la bibliografia «brullesca» è infinita; che i suoi libri finiscano fuori catalogo, non disponibili, poco dopo averli pubblicati dovrebbe far sorgere all'autore qualche folgorante domanda in merito all'autenticità del proprio talento. A che pro tanta ostinazione? Brullo è, al contempo, giornalista e poeta, romanziere e traduttore. Nessuna di queste tante, troppe attività gli ha dato gloria, Brullo è un po' tutto e un po' niente, e questo è un po' troppo per la pazienza di un lettore.
Certo, gli riconosciamo, tutti, qualche verso riuscito, qualche pagina formidabile, qualche articolo da ritagliare, chi non ne possiede. Ma è tutto qui - e questo non fa di un uomo un artista. Brullo è quello del «bel gesto», della capriola in mezzo alla piazza, della piazzata estemporanea; quando lo conosci, la prima volta lo pensi effettivamente geniale, la seconda ti è tuttavia simpatico, la terza capisci perché - nomen omen - da uno come lui non si può cavare nulla. I libri di poesia li lascio ai cultori: da Annali (2004) a Gries (2019), non mi pare che ci si sia accorti della prestanza lirica di Brullo; a molti i suoi versi paiono artefatti, una vertigine in cartapesta, e poi, chi li ha letti? Come romanziere, Brullo nasce con Il lupo (2009), un tentativo pasticciato di imitare Cormac McCarthy. Del libro, sorretto dagli apprezzamenti di Massimiliano Parente e di Barbara Alberti, parlarono in pochissimi; il secondo, S (2010), è una specie di polluzione verbale notturna, illeggibile, che avrebbe dovuto convincere l'autore - eccezionale nel riferire i difetti altrui - della sua incapacità a scrivere un romanzo. Disseminato tra editori-amici, dissipando i testi in edizioni minuscole e irreperibili, Brullo torna alla ribalta al Premio Campiello, nel 2014, quando Monica Guerritore, presidente di giuria, a sorpresa, imbraccia il suo ultimo romanzo, Rinuncio, e lo legge davanti agli astanti, imponendo quel libro in cinquina. Per fortuna, i giurati, più ragionevoli, hanno scelto altrimenti. Il libro, centrato sulla rinuncia al trono papale di Benedetto XVI è slegato, faticoso, presuntuoso: Brullo, esteta del «teo-fantasy», torna sul tema nel 2018 con Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, romanzo in forma di saggio, annotato, improbabile fino all'irritazione. Brullo s'è fatto una sua teoria che spaccia come rivoluzionaria: il romanzo è morto, chi ci crede più?, il romanziere ha il compito di affastellare documenti fittizi, il lettore costruirà la narrazione che manca. Così, in Rinuncio appare il diario eretico di Papa Ratzinger; in Pseudo-Paolo una lettera fasulla di San Paolo; in Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka un soggetto porno-sapienziale del grande regista tedesco e in Un alfabeto nella neve il carteggio - nevrastenico - tra Pasternak e Marina Cvetaeva.
In letteratura tutte le teorie sono accettabili se esiste un'opera a giustificarle - le buone intenzioni di Brullo non bastano. Lo sfoggio di intelligenza, lo spaccio - vile - di verità arcane, poi, è una perversione romanzesca: il lettore vuole godere, Brullo ci obbliga al cilicio senza orizzonte di salvezza. Taccio sui testi teatrali tratti da alcuni romanzi di Brullo - inutile raspare nel rancido.
Brullo sembra implicarsi, con pallido cinismo, nella schiera degli scrittori minori. Tra minore e minorato, però, c'è una certa differenza; la minoranza ha un suo egregio eroismo e qui non vedo uno scrittore. Una scrittura, semmai. Non basta.
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