È davvero singolare che i due più significativi pittori del Novecento italiano, quasi coetanei e vissuti a lungo, attraversando due guerre, siano così lontani e così diversi. Per origini, formazioni, premesse culturali, sensibilità. Il primo, Giorgio de Chirico vive nella dimensione del Mito, rinsalda, come non era più all'epoca neo-classica, i rapporti con il mondo antico con la Grecia, e non solo nel primo tempo simbolista, o in quello classicistico, è dichiaratamente archeologico, a partire dagli anni Venti, ma anche nella stagione Metafisica della quale si respira, aldilà delle citazioni di portici e sculture, la silenziosa solennità dei Templi greci. Giorgio Morandi, invece non ha alcuna nostalgia, o rimpianto, per il mondo antico. Il suo passato è Cézanne o, se si vuole, Corot. Poi ci sono riferimenti alti, a Giotto, a Piero della Francesca, a Chardin, a Giuseppe Maria Crespi, perfino a Mondrian. Niente di più lontano e diverso dal de Chirico simbolista e classico.
In questi abissi di sensibilità, anche nella contemplazione del paesaggio, carico di storie in de Chirico, pura natura per Morandi, ci sono incredibilmente affinità, e perfino consonanze, di visioni. Penso al sublime periodo metafisico che, per circa tre anni, unisce sensibilità tanto lontane. Si avverte che i confini dei due mondi restano distanti, e che altro sono i biscotti e le statue nel meriggio e altro sono gli oggetti e le scatole geometriche di Morandi; ma, in quel momento, i due pittori si sono incrociati a Ferrara, anche con il più giovane de Pisis, nell'ospedale militare, dove definiscono mondi interiori perfettamente consonanti. Sarà stata la città del silenzio, Ferrara, la città delle cento meraviglie (come la chiama de Pisis), ma tra le muse inquietanti e le sagome di Morandi circola un'aria comune. Ed è un'aria tutta mentale. Mondi lontani, ma un'identica sorpresa, il segreto delle cose, il mistero celato nella quotidianità. Dovendo seguire il de Chirico metafisico, Morandi ne riprende anche alcuni motivi iconografici, come il manichino, ma non resisterà a farlo rivivere con il cuore infiammato all'altezza del collo. È il più esplicito richiamo di Morandi a una passione che sempre verrà soffocata, se non per esprimerla nella grumosa materia di alcune drammatiche e tormentate nature morte.
A partire dal 1920, dopo una rinnovata osservazione di Cézanne, visto alla XII Biennale di Venezia, la pittura di Morandi riflette una condizione di angoscioso isolamento e di febbrile riflessione sulle forme nelle diverse tecniche: il recupero dell'incisione a tratto incrociato utilizzata dai Carracci coincide con sofisticate ricerche di materia e di ombre per restituire, attraverso il bianco e il nero della stampa, il forte tessuto tonale della sua pittura. La pittura di Morandi di questi anni si carica, nell'apparente ripetizione, di una fortissima intensità spirituale: ogni tela è una preghiera, una meditazione ascetica e, invece, (letterale) riflessione sulle cose. Cose sono, ma dotate d'anima, così come la materia, la pittura, nel suo farsi, è materia che pensa, non inerte stesura e se, dopo gli anni della Metafisica, nel tempo di Valori plastici, gli oggetti reclamano una struttura geometrica per farsi architetture, nel prosieguo della ricerca Morandi esibisce una fantasia sfrenata (sì, veramente sfrenata), non nella selezione degli oggetti, ma nella espressione con cui te li rivela.
Ogni natura morta, come una persona, ha un volto, e la ripetizione dei soggetti è solo apparente, tanto che ogni natura morta fa sentire la cadenza degli anni. Durante la Seconda guerra mondiale, in particolare nel 1942, le nature morte di Morandi appaiono come spente, di materia fragile, nebbiose, ripetono un malessere tanto profondo da disabilitare anche la continenza, la prudenza, la misura di Morandi, che era stato anche euforico in tempi di pace. E se il valore plastico corrispondeva a un tempo di ricostruzione, dopo la Seconda guerra mondiale, la bellissima natura morta del Museo del Novecento a Firenze dava la misura di un ordine nuovo, prima che il fascismo degenerasse i tempi nuovi, fra il 1923 e il 1925: un assoluto capolavoro di grande armonia compositiva. Poi le cose vacillano, e la pittura di Morandi sembra seguire le ore e i giorni degli Indifferenti di Moravia (del 1929). Può sorprendere anche che, nel corso dei decenni, non cali l'attenzione espressiva del pittore, anche se mutano evidentemente gli umori, il Sentimento del tempo, come l'avrebbe chiamato Ungaretti. Morandi è sensibilissimo: nelle nature morte del 1928-29 sembra riprodurre un'essenza segreta, un «noumeno» della natura morta seicentesca, tra Chardin e Zurbarán. Ma già nel 1932, con la più fluida scrittura della natura morta della Galleria d'arte moderna di Roma e poi, nel '36, della collezione Giovanardi, il riferimento sembra essere Rembrandt, in un tormento che tiene vive le forme, come vediamo ancora nella natura morta del '37 della Fondazione Longhi.
Inizia poi il tunnel della guerra, con bottiglie tutte uguali in una sequenza paratattica, in una stesura magra e monocroma, fino all'angosciosa tela tagliata, si direbbe decapitata, del 1942. Ma ecco, dopo il buio, il pittore riprendersi, come chi ritorna a parlare dopo un lungo silenzio, e lo si ascolta, dopo un inedito rosso della natura morta del 1942 e nell'altra del '46, ancora della Galleria nazionale d'arte moderna di Roma. A partire dal '48, Morandi elabora nuove composizioni che alludono a una sorta di umanesimo o di una ritrovata coralità: gli oggetti si tengono stretti gli uni agli altri come gli edifici lungo la strada: lo vediamo nel '52 e ancora nel '53 nell'emblematica e compatta natura morta della fondazione Magnani Rocca, così come, con altro ritmo, in quelle del '53 e '54 della collezione Giovanardi. Questo spirito sempre più rarefatto, con una pittura veloce e quasi senza materia, si vede nelle nature morte successive, nelle due bellissime della collezione Gregori, e in quella estrema, con una bottiglia più piccola soffocata da due recipienti più grandi. Morandi si estingue nelle teiere a olio e acquerello in cui sembra ripetere l'esperienza dell'ultimo Guido Reni quasi monocromo e senza corpo. Morandi stampa la sua anima sulla tela.
Non diversamente da quello che accade nei suoi paesaggi, da un inizio cézanniano contaminato con Picasso e Braque a una fase più illustrativa, calda di colori, in cui l'archetipo di Cézanne si articola in rapporto con Soffici e il gusto di strapaese: vedi il paesaggio di Grizzana del '27, ora alla Camera dei Deputati. Diversamente dalle nature morte, i paesaggi appaiono sgranati fin dai primi anni '30 come si vede in quello del '32 della Fondazione Roberto Longhi, e ancora del '34 nella collezione Brandi. Impressionante appare il cortile di via Fondazza della collezione Merlino di Busto Arsizio e parimenti l'analogo cortile del '40-41, ora al museo di San Domenico a Imola. Emblematico dono di Morandi al giovane amico e allievo di Longhi, Alberto Graziani, in occasione del suo matrimonio.
I paesaggi di Morandi appaiono liberi e sempre più rarefatti anche negli anni successivi, anche negli anni difficili della guerra, dove il paesaggio sembra equivalere a una fuga, mentre la natura morta a una prigione.
Ovviamente sorprendenti, ma coerenti con la dissoluzione della forma e del colore, sono i paesaggi ultimi, tra il '59 e il '63, in particolare quello giottesco e spettrale della Unicredit e quello, quasi trasparente di collezione privata di Torino. In questa fase, i paesaggi sembrano nature morte e le nature morte paesaggi. È il miracolo di Morandi, che ha sempre e soltanto dipinto la propria anima.
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