"Il deserto ha un'anima. Ed è la tua"

Lo scrittore ha viaggiato per tre anni, dall'Oman alla Cina: "Ogni luogo è diverso e unico"

"Il deserto ha un'anima. Ed è la tua"

Cina, Kazakstan, Oman, Egitto, Australia, Stati Uniti: il giornalista inglese William Atkins ha attraversato i deserti del globo, colpito, come i leggendari esploratori dei secoli passati, da una «malattia moderna»: l'ossessione per questi luoghi estremi, infinito e solitudine, morte e rinascita, carne e spirito. Secondo Lawrence d'Arabia «solo due tipi di esseri si trovano bene nel deserto: i beduini e gli dèi». Per scoprire a quale categoria apparteniamo bisogna imitare Atkins o, in alternativa, leggere il suo Un mondo senza confini (Adelphi, pagg. 440, euro 28). Un libro per sognatori, fra saggio e diario di viaggio, di cui parlerà sabato 23 marzo a Treviso, nella rassegna Landscapes.

William Atkins, come è nata la sua passione per i deserti?

«Ha due genitori. Il primo è la cupa brughiera inglese - i paesaggi di Cime tempestose e Il mastino dei Baskerville - che, nella sua uniformità, nella sua ostinazione e nel suo isolamento è il nostro equivalente più vicino ai paesaggi desertici. Il secondo è il mio interesse per il monachesimo cristiano, che è strettamente associato ai luoghi deserti. Infine, c'era anche il desiderio di rispondere proprio a questa domanda: che cos'hanno i deserti, questi così luoghi pericolosi e ostili, che ci ha sempre attratto?».

Con quale obiettivo si è messo in marcia per compiere questi «Viaggi in luoghi deserti»?

«Volevo capire che cosa significasse la parola deserto, così carica di un peso simbolico e religioso. Come sarebbe stato trascorrere del tempo in un luogo che, nella mia mente, era per lo più un simbolo, o una metafora?».

Quanto ha impiegato?

«Ho viaggiato per tre anni, a volte restando in un posto per molti mesi, a volte solo per pochi giorni. E molti viaggi sono stati compiuti in biblioteca».

Quali esploratori l'hanno influenzata di più?

«Isabelle Eberhardt, Sven Lindqvist, Bruce Chatwin, Georgia O'Keeffe, Antoine de Saint-Exupéry...»

Qual è la relazione fra monachesimo e deserti?

«È un rapporto complesso e, benché io non condivida la fede dei monaci, la cosa importante da comprendere è che il deserto è la dimora del diavolo: un monaco non va nel deserto per cercare la pace o la tranquillità, o perché lì può sentirsi più vicino a Dio; ci va perché, nel deserto, è dove combatte contro Satana. Il deserto è la prima linea dello spirito».

Il deserto più sorprendente?

«Tutti i deserti sono infinitamente sorprendenti: è nella loro natura, perfino quando ciascuna impronta è identica all'ultima. Ma il Quarto Vuoto in Oman mi ha colpito per la sua bellezza, di una intensità che non avrei mai immaginato fino ad allora, come quella di un altro pianeta, o di un luogo in un sogno».

E il più ostico?

«Il deserto di Taklamakan nello Xinjiang, nel Nord-Ovest della Cina. È un luogo duro in cui vivere, non solo fisicamente, ma anche per il clima politico: quando ero lì, le restrizioni nei confronti della minoranza uiguri si sono intensificate e ricordo un grigiore costante nell'aria e una stanchezza e una diffidenza enormi negli occhi delle persone».

Ha mai avuto paura nel deserto?

«Sven Lindqvist ha scritto: Perché viaggio se mi fa tanta paura?. Non sono uno intrepido e faccio del mio meglio per evitare situazioni pericolose. Ma ho avuto paura, talvolta, nello Xinjiang e, per breve tempo, quando mi sono perso nel deserto dell'Arizona. Il pericolo maggiore nei luoghi deserti sono le altre persone, ma la vera sfida è soprattutto emotiva: nel deserto ti confronti con te stesso. Che cosa c'è di più spaventoso?»

Come descriverebbe l'esperienza dal punto di vista percettivo?

«I deserti non sono affatto statici o monotoni. Prendiamo il Quarto Vuoto: le sue dune immense sono in uno stato costante di flusso, modellate e rimodellate dal vento. La sua sabbia, nel frattempo, cambia colore nel corso della giornata, dal rosa all'oro, dal blu al bianco, dal malva al rosso, dal verde al blu un'altra volta...»

Il deserto è un luogo di vuoto o di pienezza?

«È sicuramente un luogo di pienezza: una pienezza che è nel suo stesso vuoto. Il nulla ci può sopraffare».

Di silenzio o di rumore?

«Una lezione che il deserto ti insegna è che, come il buio, il silenzio in natura non esiste. Sdraiati nel deserto di notte e sentirai te stesso respirare e sbattere le palpebre, sentirai il sangue che monta nelle tue vene. Il tuo corpo è sempre lì che gorgoglia...».

Quanto ci si sente soli, e quanto liberi, nel deserto?

«Mi sono sentito solo nelle città, mai nel deserto. Libero, sì, ma è una libertà limitata dalle difficoltà fisiche. E poi c'è una persona di cui non puoi mai liberarti: te stesso».

Come è stato tornare a vivere in città?

«Mi piace la città, ma anche la città può essere un deserto, a volte».

C'è qualcosa che accomuna tutti i deserti in cui è stato?

«Ogni deserto è diverso dall'altro, come una giungla da un'altra, o Londra da Roma. Ma, per essere romantico, direi che i deserti hanno questo in comune: ti ricordano, allo stesso tempo, la tua totale insignificanza e il tuo infinito valore».

L'avventura è ancora possibile oggi?

«L'avventura è facile; la scoperta è più difficile; l'esplorazione, nel 2024, è impossibile».

Che cos'è il «deserto assoluto»?

«Il Desert absolu era un'idea degli esploratori francesi dell'Ottocento: il deserto più profondo, perfetto, il luogo della solitudine e dell'isolamento più totali. Ovviamente è un luogo che non ha coordinate geografiche, poiché esiste, come il Paradiso, solo nell'immaginazione».

Il suo deserto preferito?

«Quello che sogno è quello più simile a un sogno: il Quarto

Vuoto, nella Penisola arabica. Ha trasformato il mio concetto di bellezza e mi ha permesso di comprendere perché le grandi religioni monoteiste siano sorte dai luoghi deserti: l'armonia, l'infinità, la vita nella morte...»

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