Diamoci un taglio, con Fontana finì la pittura

Il messaggio è chiaro: sulla tela non si può più dipingere. La realtà è idealmente oltre

Diamoci un taglio, con Fontana finì la pittura

Forse non ho mai scritto, non ricordo, di Lucio Fontana; o forse di una sua Via Crucis in ceramica, di essenza barocca, innovativa come il bozzetto di una delle porte del Duomo di Milano che perde il concorso, nella sua tragica disgregazione, con il più strutturato Luciano Minguzzi. Certamente ho molto parlato, in conversazioni e conferenze, dei suoi «tagli». Qualche giorno fa mi sono riferito a lui dicendo che spesso l'arte contemporanea di successo è una battuta. Letteralmente, per esempi assoluti e, ormai, universali: i «sacchi» di Burri, i «tagli» di Fontana e la «merda d'artista» di Manzoni.

Perché battute? Perché dirli equivale a vederli. Si può sempre passare per l'esperienza sensoriale, ma le opere si risolvono in quello che le parole dicono. Non c'è un'esperienza autentica e irrinunciabile nel vedere la scatola di merda di Manzoni. Parlarne è come guardarla. Senza il residuo del feticcio. Ma se le opere d'arte perdono la loro natura sensoriale, perdono la loro identità visiva e, con essa, il piacere puro della contemplazione, l'arte non è forse morta? In un certo senso questo intendono le esperienze ultimative sopra citate. «Sacchi» come rifiuti, come scarti, «merda» come materia umiliata e scaricata, «tagli» come mortificazione del supporto materiale della pittura. Una tela tagliata è inutilizzabile. Per qualcuno può essere la metafora di una ferita, per me è una dichiarazione di resa; la tela non è più il supporto su cui dipingere, ma è una superficie lacerata, inutilizzabile. L'esercizio stesso della pittura è interdetto dalla lacerazione della tela. Fine.

O, meglio, inizio. Sulla tela non si può più dipingere la realtà percepita, ma essa è idealmente oltre, al di là, dietro la tela. Il taglio ha un significato metafisico, meta-fisico, non più il fenomeno ma il noumeno, la ricerca di una essenza oltre la sua rappresentazione. Per ciò che resta, da un punto di vista psicologico, il «taglio» di Fontana è semplicemente un gesto. La tela apre a uno spazio imprevisto, uno spazio che la nega: quello che conta è nell'aldilà. Anche se l'arte di Fontana è apparentemente inespressa, c'è molto di più sulla condizione dell'uomo e la sua precarietà che in qualunque altra coeva espressione artistica. E infatti si è affermata come un luogo comune, e i suoi tagli sono un punto di arrivo, la parola «fine», ma sono anche un punto di partenza. Da lì si può ripartire. Se tutto è finito, si può ricominciare. E, infatti, nonostante l'atto estremo di chiusura, di fine di un'epoca, secca e sbrigativa («dacci un taglio»), dopo Fontana alcune esperienze indicheranno la ricucitura della tela, Domenico Gnoli, e la sostituzione del supporto, lo specchio di Pistoletto. Se Gnoli è aristocratica restaurazione, Pistoletto è geniale invenzione di uno spazio liquido e mutevole: il quadro muta, specchiandoci, ogni volta che lo guardiamo. Mai come in questo caso: «panta rei», tutto scorre. Ma senza quel taglio non ci sarebbe stata una rinascita.

Dopo varie esperienze, Lucio Fontana, nato alla fine di un secolo, nel 1899, a cinquant'anni, nel 1949, si rigenera mentre, con un gesto ampio e risolutivo, taglia magistralmente una tela. Lo vediamo nei memorabili scatti di Ugo Mulas del 1964. Da essi si intuisce l'entelechia del gesto. Forse più ancora che nella visione delle opere, rovesciando la natura stessa dell'esperienza artistica, le fotografie di Mulas restituiscono il senso dell'opera di Fontana. Ho detto «entelechia». Per nessun artista, forse, questa identità meramente spirituale è più forte. Non invidio i critici che hanno dovuto commentare le opere di Fontana, e magari schedarle cercando di restituire al tempo quello che è fuori del tempo, alla condizione materiale ciò che è per sua natura immateriale, giocando all'infinito sulla definizione di «concetto spaziale». Fontana afferma: «Scoprire il Cosmo è scoprire una nuova dimensione. È scoprire l'Infinito. Così, bucando questa tela - che è la base di tutta la pittura - ho creato una dimensione infinita. Qualcosa che per me è la base di tutta l'arte contemporanea».

Una mistica fontanesca ha dato la più ampia considerazione a banalità, per altro non implausibili, come quelle dello stesso artista nel definire la sua opera: «io buco; passa l'infinito da lì, passa la luce, non c'è bisogno di dipingere... invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto». Nessun dubbio. E ancora, quasi con irritazione: «è l'infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l'arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l'è un büs, e ciao...». E da qui le interpretazioni nel genere di: «Il taglio di Fontana è poi una ferita, uno squarcio. La si può anche interpretare come metafora dell'amplesso e della penetrazione. In realtà, di quest'ultima teoria, l'unico aspetto interessante, al di là delle inutili e triviali provocazioni, è che Fontana ha lo scopo di ridare vita umana, far vivere quei monocromi assoluti che fanno da sfondo ai tagli, che non potrebbero, nella loro assolutezza, essere umani, se non dipinti in Yves Klein Blue, ma questa è un'altra storia...». E potremmo allora dire che il Taglio di Fontana è come l'organo femminile, e quindi la madre di tutte le cose, ciò da cui tutto origina, una sintesi del capolavoro di Courbet, e via blaterando.

Tutto è vero, e tutto è assurdo.

Ma ciò che è certo è che i «tagli» di Fontana sono un punto di arrivo, la fine dichiarata della pittura. Non la morte dell'arte. Il suo gesto, così come apre verso l'infinito, verso ciò che sta oltre, altrettanto è conclusivo. E qui comincerà un'altra storia.

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