"La diga del Vajont svettava intatta ma Longarone non esisteva più"

L'allora comandante di una delle compagnie mandate in soccorso ci racconta gli effetti della frana avvenuta sessant'anni fa

"La diga del Vajont svettava intatta ma Longarone non esisteva più"

La diga del Vajont progettata dal 1926 al 1959 dall'ingegnere Carlo Semenza e costruita tra il 1957 e il 1960 è stata uno dei capolavori ingegneristici dell'Italia del boom. Molto presto, attorno all'invaso iniziarono a presentarsi gravi problemi di stabilità, localizzati sul versante del Monte Toc. A nulla servirono le ripetute denunce della situazione fatte da molti abitanti e le avvisaglie di frana (come quella del 4 novembre 1960). Si pensò di riuscire a tenere sotto controllo il fenomeno, ci si fidò degli studi fatti su modelli in scala. Fu così che nella notte del 9 ottobre 1963 una frana proiettò oltre la diga (che resistette) un'enorme onda che uccise 1910 persone. Nel 2008 l'Unesco lo ha incluso tra i cinque più gravi disastri di ambientali di natura antropica: «Un classico esempio di quello che succede quando gli ingegneri e i geologi si rivelano incapaci di cogliere la natura del problema che stanno cercando di affrontare». Subito dopo il disastro, in un panorama devastato, gli effetti dell'onda furono paragonabili allo spostamento d'aria di un ordigno atomico, si mossero verso le località colpite i primi soccorsi. Pompieri, alpini, artiglieri di montagna andarono verso il luogo del disastro, senza avere l'idea di cosa si sarebbero trovati davanti. Gian Paolo Agosto, classe 1932 e Generale della riserva, all'epoca della tragedia era comandante della 41esima batteria obici 105/14 del gruppo «Agordo» alle dipendenze del comando del 6° Reggimento di Artiglieria da Montagna - Brigata Alpina Cadore di Belluno. Nel mese di ottobre del 1963, la sua principale preoccupazione come giovane comandante era che era stata preannunciata una possibile esercitazione di allarme Nato. Quando alle due di notte, tra il 9 e il 10 ottobre, squillò il suo telefono di casa si immaginò che stesse per partire l'esercitazione. Invece stava per entrare in un incubo. Lo abbiamo raggiunto - con l'aiuto di Igor Piani, vicecaporedattore di Rivista Militare e del Generale Stefano Fregona - e ci siamo fatti raccontare da lui cosa successe. Di quegli eventi ha vergato anche una memoria per i suoi nipoti, in modo che non dimentichino.

Generale Agosto, quindi arrivò questa telefonata notturna..

«Raggiunsi subito dopo la telefonata la mia batteria, ero Capitano di ispezione e chiesi all'ufficiale di picchetto di mostrarmi il messaggio in codice Nato che ordinava l'esercitazione... Rispose che non era arrivato alcun messaggio in codice ma una telefonata del Comando brigata che ordinava di allarmare tutti i reparti. Ho telefonato subito al Comando brigata. L'ufficiale di servizio disse che era crollata la diga del Vajont con la distruzione di Longarone».

A quel punto?

«Ordino agli artiglieri di riportare nei magazzini gli obici, le armi individuali e tutto il superfluo. Ci dotiamo soltanto di zainetti di sanità, picconi, badili, corde, teli vari e partiamo in autocolonna e raggiungiamo il comando di Reggimento. Lì vengo informato che la mia batteria alle ore 12 deve dare il cambio agli alpini del battaglione Pieve di Cadore che operano nella zona dalle prime ore del mattino ed erano stati i primi ad arrivare. Impartisco le istruzioni che posso, l'ambiente in cui si andava ad operare era totalmente sconosciuto».

Cosa avete trovato?

«Siamo arrivati con gli automezzi alla frazione di Faè, poi abbiamo percorso a piedi la statale piena di fango e di macerie, poi abbiamo utilizzato la scarpata ferroviaria e il ponte ferroviario sul torrente Maè rimasto integro, a quel punto ricevo l'ordine di dare il cambio agli alpini che operano nell'area di Pirago, una frazione sopraelevata di Longarone... Arrivato sul colle, la scena che si presenta ai miei occhi è apocalittica e incomprensibile: il paese distrutto e la diga è intatta. È rimasto in piedi solo il campanile che svetta sulla distesa di sabbia e ghiaia. Iniziamo subito la ricerca dei feriti, improbabili, e dei corpi senza vita. Al ritrovamento delle prime salme gruppi di fotografi e giornalisti si accalcano attorno a noi. Col passare dei giorni poi questi ritrovamenti diventarono tristemente abituali... Quel primo giorno la notte ci sorprese in quell'immenso cimitero a cercare ancora quei poveri corpi. La valle era solcata dai fasci luminosi delle fotoelettriche...».

Un esperienza tremenda. C'è qualche episodio che le è rimasto particolarmente nella memoria?

«All'inizio delle ricerche un soldato vide sporgere dal fango la mano di una donna con la fede nuziale. Sconforto, impotenza e un nugolo di fotografi che si accalca su quella mano. Poi l'ansa del torrente Maé... Parte dell'onda aveva depositato il suo carico di morte e di macerie in un immenso groviglio di travature delle case distrutte. Ho mandato lì ad intervenire un ufficiale e trenta artiglieri... Quando sono risaliti ho visto le loro espressioni... Hanno dovuto ricomporre corpi, a volte trovavano solo arti. Ho istituito una turnazione per salvaguardarli, erano giovani di leva. La mia preoccupazione era farli dormire, mangiare, salvaguardare spazi minimi di normalità».

Vi muovevate in un contesto in cui ogni traccia di vita normale era stata annichilita o snaturata...

«Un giorno, mentre si scavava tra la sabbia e la ghiaia, gli artiglieri individuarono un baule chiuso a chiave. Dopo averlo liberato dai detriti viene aperto, conteneva il corredo nuziale di una giovane del paese, nel fare l'inventario degli oggetti viene trovato un rotolino di buoni postali fermati da un elastico: erano i risparmi per le nozze. Chiamo i carabinieri e consegniamo tutto».

Mi tremano un po' i polsi a chiederlo. Tra le vittime ci furono anche molti bambini.

«Mentre degli artiglieri stavano scavando fra la sabbia e la ghiaia videro affiorare dei capelli, abbandonarono il piccone per procedere, molto più delicatamente, con le mani. Affiorò il volto di una bambina. Liberata dai detriti, la troviamo ancora nel suo lettino. Era sotto le coperte, schiacciata dal peso dell'onda e delle macerie. Continuando a scavare si è capito che era un letto a castello. Sotto di lei c'era sua sorella».

Non deve essere stato facile nemmeno con i superstiti.

«Dopo tre o quattro giorni arrivano dall'estero i primi emigranti. In molti erano partiti da Longarone in cerca di lavoro. Vagavano esterrefatti in quella landa di ghiaia per cercare la loro casa natia. Nell'area di Pirago le case erano state falciate dall'onda e queste erano riconoscibili essenzialmente dalle piastrelle del piano terreno rimaste in parte integre e parzialmente visibili. Diversi parenti mi chiedevano l'aiuto di un soldato per staccare una piastrella del pavimento, a ricordo dei loro cari. Ottenuta la piastrella la ripongono nella borsa o sotto alla giacca e si allontanano piangendo».

Immagino che sia una cosa che non si possa dimenticare, nemmeno a distanza di tanti anni.

«Resta tutto. I dettagli sono indimenticabili. Io poi avevo una responsabilità come comandante anche rispetto all'incolumità dei giovani che comandavo. Tutelare quei ragazzi era una cosa che mi preoccupava sempre».

Immagino che niente del vostro addestramento vi avesse preparato ad una cosa del genere.

«Era tutto una improvvisazione, un rispondere alla necessità immediata. Eravamo in mezzo ad un disastro, abbiamo dovuto adottare sul momento una serie di accorgimenti. Dei ventenni buttati in mezzo ai cadaveri... ai corpi straziati.

Una delle cose di cui sono veramente contento è che nessuno dei coraggiosi e bravi ragazzi che comandavo si sia fatto male. Ma cosa sia stato è riassunto bene in una poesia di Carla Sarto che ci ha visto operare all'epoca: Vi vedevo la sera/ Tornare/ sul camion di fango/ di fango voi stessi/ gli occhi fissi nel vuoto,/ nel nulla».

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