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"Dissero che il segreto non doveva finire nelle mani dei militari"

Enrico Remondini: "Fui contattato per smaltire un nuovo tipo di scorie". La macchina: "Capisco perché era celata. E in gran parte lo condivido"

Enrico Remondini non è un uomo di molte parole. La sua esperienza con la Fondazione Internazionale Pace e Crescita, a undici anni di distanza, è ormai un ricordo tra i risvolti della memoria. Alcuni mesi di lavoro, poi i contatti si sono chiusi lasciandogli, oltre a una certa perplessità per il modo in cui sono stati interrotti, anche un velo di amarezza. Soprattutto, però, gli è rimasta dentro una fortissima curiosità: quanto c'era di vero in quello che gli avevano detto?

Signor Remondini, come e quando è entrato in contatto con la Fondazione Internazionale Pace e Crescita?
«Fu nei primi mesi del 1999, mi pare, e in modo del tutto fortuito. Mi trovavo a Lugano per lavoro e un amico me ne parlò. Non era una notizia di dominio pubblico, per cui ero incuriosito. In seguito il mio amico mi fece incontrare il direttore della Fondazione, il dottor Renato Leonardi, e a lui chiesi se potevo collaborare con loro».

Non furono dunque loro a cercarla...
«No, fui io che ne feci richiesta. In un primo tempo pensavo di poter lavorare nelle pubbliche relazioni, ma ben presto mi resi conto che a loro non interessava quel settore. Leonardi, invece, mi chiese di fare alcune traduzioni e, a questo riguardo, mi diede diversi documenti».

La sua collaborazione si fermò alle traduzioni?
«No, successivamente decisi di instaurare un rapporto più imprenditoriale. Per cui venni presentato al professor Nereo Bolognani, presidente della Fondazione. Fu lui a spiegarmi che le centrali polivalenti della Fondazione erano in grado di smaltire in modo ottimale un certo tipo di scorie. Soprattutto di tipo metallico. Per cui, insieme ad un mio amico, mi feci dare un mandato dalla Fondazione stessa per procurare questo tipo di scorie. Riuscimmo a prendere contatti con uno solo dei nominativi che ci erano stati forniti. Si tratta di una grossa acciaieria italiana che aveva problemi per lo smaltimento delle scorie metalliche. Noi ci facemmo consegnare un campione e lo passammo a Bolognani perché lo facesse esaminare e ci dicesse se l'affare poteva essere avviato. Ma accadde qualcosa prima di avere l'esito di quelle analisi...».

E cioè?
«La moglie di Bolognani morì di un brutto male e per qualche tempo non riuscimmo a metterci in contatto con lui. Pensavamo che, dopo un certo periodo, si sarebbe ripreso e avremmo continuato la normale attività lavorativa. Ma le cose non andarono così. È probabile che avvenne anche qualche cambiamento interno alla Fondazione. Qualche tempo dopo venni a sapere che era stata messa in liquidazione».

Eppure lei aveva lavorato per loro, avrà avuto anche delle spese. Gliele hanno mai rimborsate?
«No, e non gliele ho mai chieste. Ripeto, abbiamo preso solo un contatto, per cui si trattava di poca cosa. Non mi è sembrato che ne valesse la pena».

Tuttavia nei suoi confronti non hanno mostrato molta chiarezza. Ha mai provato a farsi dire qualcosa in più circa la loro attività?
«Sì, una volta ho avuto una conversazione di questo tipo con Bolognani. Devo dire che era una persona molto corretta e molto religiosa.

Mi spiegò che lo scopo della Fondazione era quello di evitare che una scoperta scientifica come quella che loro gestivano finisse nelle mani dei militari, diventando causa di morte. Poi aggiunse che un giorno, quando Dio vorrà, questo segreto verrà reso pubblico».

E le basta?
«No, però capisco il fine. E per molti versi lo condivido».

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