Donadoni e l’azzurro: «A volte serve coraggio»

La leggenda Voglio iniziare l’avventura con un motto di Cassius Clay: i campioni non si fanno sul campo, ma con qualcosa che hanno nel profondo

Franco Ordine

Caro Donadoni, è pronto a salire sulla graticola della panchina azzurra?
«Certo. E ho scelto anche il motto per la mia avventura, me l’ha segnalato un devoto amico».
Di cosa si tratta?
«Di una frase di Cassius Clay. Dice: i campioni non si fanno nelle palestre, i campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Basta sostituire la palestra con il campo di calcio e il gioco è fatto».
Quando la chiamò Demetrio Albertini, per proporle l’incarico di ct, lei a cosa pensò?
«Non ho avuto nemmeno il tempo di fare neanche una battuta. Ho risposto: ah. E sono rimasto ad ascoltare, non perché sia un silenzioso ma perché volevo realizzare bene la proposta che mi stava arrivando. E cercavo anche di immaginare lo scenario. Alla fine del colloquio ho avvertito due sentimenti: tanta gioia e una sana preoccupazione».
Qual è stato il più bell’incoraggiamento ricevuto?
«Un amico mi ha chiamato e mi ha detto: vedi, la serietà e i comportamenti virtuosi, alla fine, ripagano. Quel giudizio mi ha gratificato, lo ammetto».
Caro Donadoni, lei ha avuto tre allenatori di riferimento nella sua carriera: Vicini, Sacchi e Capello. Cosa le hanno lasciato?
«Ero giovane, ai tempi di Vicini: mi colpì la sua umanità, i rapporti genuini, l’entusiasmo coltivato. Poi arrivò Arrigo e fu l’inizio di una rivoluzione: insegnò a lavorare in modo meticoloso, senza trascurare neanche un dettaglio. Capello è sempre stato uno molto convinto e molto determinato, malleabile nello spogliatoio anche se all’esterno passava per un sergente di ferro».
Quanto è stato vicino alla Juventus?
«Sono stato vicino. Quanto, non so. Mi hanno contattato, mi hanno incontrato, mi hanno parlato dei loro progetti. Ne sono rimasto lusingato. All’epoca non avevo ancora la Nazionale».
Caro ct, ha appena cominciato il suo tour nei ritiri. Com’è stato il primo impatto coi campioni di Berlino?
«Ne ho incontrati pochi, quelli del Milan, Amelia. Contano più delle parole le espressioni del viso. Ho trovato risposte positive».
È vero che con Albertini avete affrontato il tema più complesso dell’organizzazione del lavoro e del rilancio delle Nazionali?
«È stata l’idea con cui la Nazionale mi ha conquistato. Abbiamo deciso che ci sarà un maggiore collegamento con l’under 21, che le diverse rappresentative non saranno dei compartimenti stagni, che i raduni non devono essere semplici raduni e che la squadra degli osservatori deve girare in lungo e in largo per tirare fuori il meglio dal calcio italiano. Non sarà facile e non sarà veloce ma ci proveremo».
Perché allora l’under 21 ha ricevuto tanti no?
«Semplice. Perché in certi momenti bisogna avere coraggio».
E Zola l’ha avuto...
«Zola ha carisma, visibilità, può crescere. Ma attenti perché l’attore principale dell’under 21 è Casiraghi. Ho letto qualche maliziosa interpretazione, proveniente dai ranghi tecnici federali: il responsabile dell’under 21 è Casiraghi. L’altra sera, a Rovereto, a vedere la Juve c’ero io ma c’erano anche Zola e Casiraghi. E Zola, per il momento, è un collaboratore di Casiraghi».
Sta per arrivare la sera del debutto: come giocherà la sua Nazionale?
«Per la prima partita non avrò a disposizione il gruppo dei mondiali e partirò da un 4-3-3. Poi sarà la presenza di Totti a determinare le variazioni sul tema: con lui posso passare anche al 4-4-2 come è successo a Lippi in Germania».
Vuole continuare sulla stessa strada di Lippi, quindi...
«Giocare con un tre-quartista più due punte è un’idea che mi convince. Forse perché da calciatore ricoprivo quel ruolo e mi ci ritrovavo alla perfezione».
A proposito del Donadoni calciatore: come mai tutti quelli del Milan di Sacchi, sono diventati allenatori?
«Perché quel gruppo era formato da gente umile che aveva voglia di competere tutti i giorni, non solo la domenica, e che voleva dimostrare doti che non erano solo dono di mamma natura».
Ha sentito qualcuno dei suoi ex amici?
«Ho parlato con Van Basten, ho studiato le mosse di Klinsmann. Tutti e due si sono mossi avendo una bussola tra le mani: non l’hanno mai abbandonata, poi sbaglieranno direzione magari, ma non torneranno mai indietro».


Perché ha scelto Livorno per la prima?
«Perché nella mia vita ho sempre cercato di ripagare chi mi ha dato qualcosa. E Livorno, nella mia carriera di allenatore, è stata una tappa importante. Poi andrò, per coincidenza, nello stesso albergo dove feci il primo ritiro col Livorno. Io credo molto agli incroci del destino».

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