Le donne di Sardegna capolavori fieri e silenziosi

Conosciute di persona e nelle opere di Ciusa, Biasi e Cugusi, incarnano lo spirito di un popolo

Le donne di Sardegna capolavori fieri e silenziosi

Sardegna libera, Italia libera. Sapevano effettivamente un po' di ritorsione le parole del sindaco di Milano sulle sue destinazioni per le vacanze estive. Non in Sardegna, dopo la richiesta di un passaporto sanitario da parte del presidente della Regione, Solinas. E indispettita, e addirittura isterica, la reazione di Massimo Fini che demolisce la Sardegna e il suo mare per scegliere la Corsica. Deliri di menti fragili contro la forza della natura che non teme la sfida di alcuna malattia, soprattutto immaginaria. Fini, ignorando la dignità delle donne sarde, potentemente rappresentata in uno dei capolavori dell'arte universale, La madre dell'ucciso di Francesco Ciusa, immagina feroci Erinni, pronte a punire la sua candida nudità. Inventa spudoratamente il beghinismo sardo: «Mi spogliai al riparo di una specie di asciugamano improvvisato da Alberto e mi cacciai a mare in mutande facendo un bagno bellissimo con sullo sfondo l'Isola, enclave ligure, di Carloforte. Quando uscii venimmo circondati da delle vecchie zie che tutte vestite di nero se ne stavano da quelle parti: Ma vi rendete conto di quello che avete fatto? ci dissero scandalizzate. Poiché ci incalzavano ulteriormente Cossu che è un bel ragazzo, aitante, le disperse con un bastone».

Racconto impossibile. Io ricordo il mio primo viaggio in Sardegna con i miei genitori, nel 1961 o '62, e l'avvertimento dei primi turbamenti sessuali, quando due giovani donne vedendo me, biondo, ben pettinato, con una verde maglietta Fred Perry, manifestarono a mio padre il loro apprezzamento: «ma che bel giovane, ma che bel figlio!». E io mi sentii per la prima volta desiderato. Mai visto «vecchie zie vestite di nero». In questa descrizione c'è piuttosto la misogenia di Fini. Ma chi ha avuto l'avventura di vedere la bellezza e la fierezza delle donne sarde nei meravigliosi dipinti di Giuseppe Biasi, di Melkiorre Melis, delle sorelle Coroneo, non può credere alla convenzionale caricatura di Fini. Le donne sarde sono più donne di qualunque altra pur bella e sensuale napoletana, siciliana, fiorentina. Sono forti e dignitose, mai moraliste. Una donna sarda «vestita di nero» non parlerebbe, per dignità e pudore. Guarderebbe con distacco. Forse Fini non le ha viste, a Bosa, a Castelsardo, a Posada, a Oliena, a Orgosolo, a Orani, a Su Gologone, a Mandra Edera, a Perfugas, a Fordongianus, o all'Isola dell'Asinara. Non è mai stato davanti ai giganti di Monte Prama, non ha visto i quadri di Brancaleone Cugusi da Romana. È impossibile, è sempre stato impossibile incontrare in una spiaggia «donne sarde vestite di nero». E anche se una volta fosse stato vero, mai, vedendo gli uomini mezzi nudi, si sarebbero avvicinate. Sicuramente si sarebbero girate dall'altra parte.

Massimo Fini dovrebbe riflettere sulle parole tradizionalmente attribuite a una grande donna, Grazia Deledda, che ha interpretato lo spirito sardo e così lo ha descritto: «Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,/ romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi./ Siamo le ginestre d'oro giallo che spiovono/ sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese./ Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo,/ lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto./ Siamo il regno ininterrotto del lentisco,/ delle onde che ruscellano i graniti antichi,/ della rosa canina,/ del vento, dell'immensità del mare./ Siamo una terra antica di lunghi silenzi,/ di orizzonti ampi e puri, di piante fosche,/ di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta./ Noi siamo sardi». E ancora: «Siamo uno strano popolo. Siamo abituati al silenzio, al vento ed al fuoco, a guardare il mare seduti sul monte e parliamo al sacro senza usare parole. La paura è un fatto privato, nessuno sa cosa temiamo. Non abbiamo re, ma solo regine e il dio è Padre e Madre. Il sole e la luna sono figli del vento e siamo soli davanti a Dio. La Morte ci cammina dentro, moriamo ogni notte e ogni giorno rinasciamo e l'astore e la volpe sono i nostri maestri. La vendetta e il perdono ci vengono insegnati già nei primi anni e, ancora bambini, sappiamo che bisogna tacere. Le nostre notti sono buie, ma le ali dei demoni che nascondono il sole non ci fanno paura e le janas sono solo le custodi della notte. Non si sfidano, non si provocano, anche loro fanno parte del creato. Siamo sardi, siamo uomini anche quando siamo donne e gli uomini sanno piangere senza vergognarsi. Siamo sardi sempre, anche quando il mare ci porta il nemico e noi e la terra siamo tutt'uno. E la terra, la nostra terra è come noi. Aspra, silenziosa, abitata dal vento di maestrale, dai sacri ulivi e dalle grandiose querce e il falco e l'astore volano sempre alto, verso Dio».

Massimo Fini, «Siamo uomini anche quando siamo donne». Capito tu hai? «Siamo uomini anche quando siamo donne». Le vediamo nei riti, nelle processioni, nelle cerimonie, come nello Sposalizio a Nule. Le Donne irraggiungibili di Giuseppe Biasi sono eleganti e altere nei costumi sardi. Le vediamo nella stazione ferroviaria di Tempio Pausania. Claudia Zedda le ha descritte con rispettosa ammirazione: «Le sue donne appaiono austere ed imprendibili... Timide ma al contempo curiose di scrutare l'estraneo. Biasi disegna con maniacale precisione di particolari i ricchissimi abiti, ed è quasi per caso che l'amuleto consueto, la punga, blu e stellata salta all'occhio, abbandonata sul petto giallo d'una donna sposata». Ma chiunque le abbia guardate sotto i loro variopinti veli, chiuse, protette, ne ha sentito la forza, l'indulgenza; così come l'istinto di salvaguardare e difendere l'uomo, mai di rimproverarlo. La cifra della donna sarda è il silenzio, maschera sigillata di un intenso pensiero. Gli occhi perduti in un sogno di fuga. Senza però mai allontanarsi dalle loro case, dai loro figli. Nella Patria delle Janas, la donna era depositaria di virtù, conoscenze e antiche regole sulla conduzione della casa, sulla centralità della famiglia.

Aldilà delle leggende, esistono testimonianze scritte che descrivono la donna e il suo potere. Dalla grande Madre, che tutto genera, all'«accabadòra», chiamata per porre fine all'agonia dei moribondi. Le donne in Sardegna viaggiano con ceste di pane pintau, prodotti dell'orto appena raccolti o anfore d'acqua posate sulla testa, mantenendo costantemente un solenne portamento, testimonianza della dignità e grazia che le distingue.

L'assenza dell'uomo dalla casa, per abitudine o per lavoro, ha consegnato alla donna tutte le responsabilità della famiglia: la crescita dei figli, la loro formazione, la cura delle mura domestiche, la gestione del patrimonio. Vita, forza, coraggio. Rispetto. Fini ricorda male: le ha viste altrove, quelle donne vestite di nero. Il nero non si addice alle sarde.

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