E se in fondo il miglior perdono fosse la vendetta?

È preferibile l’esercizio del perdono, inteso anche come esercizio interiore, o l’azione della vendetta? Talvolta il perdono si manifesta come una forma di rassegnazione e più ancora con la rinuncia: un atto di superiorità, una considerazione che l’altro forse non merita un nostro eccessivo impegno, neppure per fargli male.
Per molti anni ho inteso il mio atteggiamento di sfida come una considerazione dell’avversario. Lo spirito che ha guidato molte mie ire e invettive, di cui oggi ancora si parla, è sintetizzato nella formula: «Non ritengo nessuno degno della mia ira», e così è stato. Molto spesso questa generosità (diversa dalla magnanimità) mi è stata dannosa. Così mi sono meritato, agli occhi di molti, la fama di incontinente, e anche il disappunto di quanti perseguono l’equilibrio come regola di vita. Per alcuni è stato invece liberatorio, così come per me, lo scatenarsi dell’ira, condividendone gli obiettivi o esaltandosi nella punizione del colpevole o dello sprovveduto che si fosse trovato sulla mia strada. Oggi - troppo tardi - ascolto e tollero con una non prevedibile indulgenza. Questo mi ottiene una maggior considerazione pubblica, anche se il ritorno del vendicatore, nei momenti in cui si affaccia, fa sgorgare un naturale entusiasmo in quelli che si sentono contagiati da questo scatenarsi di energia contro obiettivi anche non facili, luoghi comuni, fame usurpate.
Mi conforta nel non rinnegare quel mio atteggiamento, tanto da non riuscirmi a impedire di riprodurlo in un libro di Antonio Fichera, Breve storia della vendetta, pubblicato dall’editore Castelvecchi. Vi si legge, a conforto di questa deprecata attitudine, rispetto alla supposta grandezza del perdono: «Vindex - costituito da vin, “stirpe”, e dek, dalla radice deik del verbo dicere - ha il senso giuridico di “garante”... altre interpretazioni etimologiche asseriscono che il termine vendetta derivi da vis-forza». Ecco è forse il carattere della forza che rende così contagiosa e - a distanza - deprecabile la vendetta. Mentre il perdono, meno visibile, potrebbe mostrare alcune affinità con la debolezza e non è escluso che proprio la debolezza, e non la forza morale, ne sia la causa.
Ognuno di noi vorrebbe essere perdonato più che perdonare, ma non è detto che rinunciando a vendicarsi ci garantisca crediti di indulgenza. Insomma il perdono è più rassicurante e occorre convenire con Fichera che «nella vita comune la collettività gratificava soltanto chi si fosse adeguato a un comportamento quieto e passivo, nonostante nelle società antiche l’attuazione della vendetta, in teoria, fosse moralmente richiesta. Al contrario, quando ci si conforma alla vendetta essa conduce irreparabilmente alla afflizione, fisica e morale, in quanto pone l’individuo in una situazione di pericolo e di sventura.

Di fatto, il passaggio dall’assunzione della responsabilità al momento concreto, che è quello dell’efficacia, e la realtà di una situazione vendicativa hanno una loro caratteristica specifica, che consiste nel carico spaventoso di paura che si abbatte sul vendicatore». In questa chiave, si sceglierebbe di perdonare per allontanare la paura.

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