Un eccidio tira l'altro. Il classico di Pansa torna dopo vent'anni

Per gentile concessione, pubblichiamo un brano dal libro di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, nuova edizione con prefazione di Luca Telese, in libreria per Rizzoli da oggi

Un eccidio tira l'altro. Il classico di Pansa torna dopo vent'anni

«Ce la siamo presa comoda e tra poco sarà buio» dissi a Livia, quando ormai ci venivano incontro le prime case di Schio. Passammo ai Due Pini di Malo per lasciare i bagagli e mezz'ora dopo eravamo in città.

Livia sapeva dove dirigersi. Mi fece parcheggiare non lontano dal duomo, poi mi condusse in una strada vicina, via Carducci, che sfociava in un piccolo slargo. Al centro della piazzetta c'era un sedile circolare, collocato proprio di fronte all'ingresso della Biblioteca civica di Schio. La facciata della biblioteca era color corallo e lo stile mi ricordava gli edifici veneziani. Sull'altro lato dello slargo, Livia m'indicò una farmacia, la Marchesini, che aveva conservato l'antica insegna con i bassorilievi di Cavour, di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi.

«La storia ci assedia» osservò Livia. «Quella lontana e quella vicina, la più sanguinosa.»

«Già. Ma dove sta il carcere di Schio?»

«Il carcere qui non c'è più. È stato inglobato nella Biblioteca civica. Purtroppo s'è fatto tardi e la biblioteca è chiusa. Dovremo limitarci a vedere la costruzione dall'esterno.»

La vecchia prigione mandamentale faceva corpo con il palazzotto color corallo, lungo via Baratto. L'esterno, a due piani, il terreno e il primo, non era stato modificato. Grate robuste difendevano le finestre. E anche l'ingresso era rimasto lo stesso. Dove terminava l'edificio, dipinto di bianco, si apriva lo spazio di un parcheggio.

«Forse era il cortile del carcere» disse Livia. «Ma qui deve essere accaduto dell'altro. Guardi sulla destra.»

Al centro d'una macchia d'edera, c'era una grande lapide verticale. Lessi ad alta voce quel che vi stava scritto: «Il 16 aprile 1945, all'alba della libertà, qui moriva straziato dalle torture il partigiano Bogotto Giacomo, accomunato nel sacrificio ai fratelli Germano, ucciso dalle torture il 18 gennaio 1945, e Natalino, disperso in Russia».

«Parleremo fra un istante di Giacomo Bogotto» mi promise Livia. «Ma non qui. Comincia a fare freddo. Sediamoci in un caffè. Lei prenderà degli appunti. Poi andremo a cena.»

Ritornammo verso il duomo e scegliemmo il caffè Garibaldi. Era un locale lungo e stretto, con una sola fila di tavolini, in quel momento molto animato. Ma Livia e io sapevamo estraniarci da tutto, quando bisognava mettere a fuoco una delle nostre storie.

«Gli ultimi giorni di guerra a Schio e nell'area alle sue spalle» cominciò Livia «furono tormentati dal transito di colonne e colonne della Wehrmacht e delle SS che si stavano ritirando verso Trento. Quel passaggio rimase segnato da due eccidi che qui non hanno dimenticato. Avvennero entrambi il 30 aprile e furono la conclusione spaventosa di un paio di scontri con i partigiani.»

«La stessa storia di Grugliasco e di Collegno» commentai.

«Sì, ma non vorrei affrontare la questione se i partigiani avrebbero dovuto lasciar passare senza reagire quei reparti che se ne andavano. Il senno di poi ci dice che sarebbe stato meglio così: a nemico che fugge, ponti d'oro. Però né io né lei abbiamo provato la guerra dei tedeschi»

«Comunque, il primo eccidio avvenne a Forni, una frazione di Valdastico, a nord di Schio. Per rappresaglia contro gli assalti dei partigiani, i tedeschi prelevarono a Forni trentadue ostaggi. Li condussero in una contrada vicina, Settecà, li rinchiusero in un deposito di attrezzi agricoli e poi gettarono dentro il locale delle bombe a mano. Dieci degli ostaggi morirono dilaniati, altri rimasero feriti.»

«I tedeschi decisero allora di ritornare a Forni per procurarsi della benzina e bruciare i cadaveri, e forse anche i sopravvissuti. A quel punto i feriti lievi e gli illesi cercarono di scappare dal deposito. Ma una sentinella tedesca, appostata sul campanile di Forni, diede l'allarme. Una mitragliatrice cominciò a sparare sui fuggiaschi e uccise altri nove ostaggi. In totale, dunque, diciannove morti.»

«Più terribile fu la rappresaglia a Pedescala, un'altra frazione di Valdastico. Sempre il lunedì 30 aprile, con una vera e propria caccia per le vie del paese, i tedeschi uccisero cinquantaquattro uomini, compreso il parroco, e nove donne. In tutto sessantatré trucidati, più molte case bruciate o devastate.»

«La strage e la memoria della strage» osservò Livia «aprirono una piaga profonda nella gente di Pedescala. Molti non hanno perdonato ai partigiani di aver assalito la colonna tedesca senza pensare alle conseguenze sui civili. È stato coniato uno slogan tremendo, contro le formazioni della zona: Spararono e poi sparirono.»

«Ma veniamo agli antefatti della strage di Schio. Alla fine della guerra civile, il carcere di via Baratto si riempì rapidamente di nuovi detenuti. Luca Valente, nel suo libro Una città occupata, pubblicato dalle Edizioni Menin, li descrive così: Alcuni erano fascisti catturati alla fine di aprile, con responsabilità più o meno discutibili, o famigliari di fascisti imprigionati come ostaggi. Altri, invece, erano stati incarcerati nelle settimane successive per cause politiche generiche e inconsistenti, se non senza ragione o per motivi d'interesse.»

«Il 3 maggio, un gruppo di partigiani prelevò diciotto di questi detenuti, li portò in camion ad Arsiero e di qui li fece proseguire per Pedescala. L'intenzione era di fucilarli sul posto della strage, perché si diceva, non so con quanto fondamento, che insieme ai tedeschi che avevano straziato il paese ci fossero anche dei fascisti.»

«Un ufficiale inglese convinse i partigiani a riportare gli ostaggi ad Arsiero e a fermarsi lì. Ma nella notte, quattro di loro vennero ricondotti a Pedescala. E qui furono uccisi in modo veramente disumano scrive Ezio Maria Simini, un autore antifascista e di sinistra, nel suo libro E Abele uccise Caino. I quattro erano un dirigente di banca, due studenti e un capo-operaio, tutti iscritti al fascio repubblicano. Gli studenti e l'operaio venivano anche indicati come militi della Brigata nera di Schio.»

«Gli altri ostaggi furono restituiti al carcere della città. Sempre nel libro di Simini si accenna a un'esecuzione di fascisti avvenuta quattro giorni prima, il 29 aprile, in Valletta dei Frati di Schio.»

Livia proseguì: «Nel frattempo, a Schio, città rossa, con tanti operai e una forte presenza del Pci, il clima si stava arroventando. Il 30 aprile venne riesumato il cadavere del partigiano Giacomo Bogotto, il caduto della lapide che abbiamo visto. E si disse subito che era morto per le torture subite: lo provava il corpo martoriato. La città rese omaggio al feretro. Molti imprecavano contro i fascisti e gridavano: Andiamo dentro il carcere e facciamoli fuori tutti!». «Proprio in quei giorni, ritornò a Schio l'unico sopravvissuto dei quattordici deportati della città, inviati quasi tutti a Mauthausen nel dicembre 1944. Era William Perdicchi e pesava 38 chili. Raccontò com'erano morti gli altri. E anche questo, com'era fatale, gettò molta gente nella costernazione e ne accrebbe la rabbia.»

«Nemmeno in giugno gli animi si quietarono. Il sabato 30 ci fu una grande manifestazione che si concluse al cimitero, con una messa in suffragio dei deportati uccisi nei campi tedeschi. Dal corteo si staccarono dei gruppi in bicicletta, che raggiunsero il carcere di via Baratto e urlarono invettive e minacce contro i fascisti reclusi.»

«Ma di che cosa erano accusati questi detenuti?» chiesi.

«Nessuno lo sapeva con esattezza. Per alcuni di loro erano già stati emessi gli ordini di scarcerazione. Ma quei fogli restavano a dormire nei cassetti di qualche ufficio giudiziario o del Cln. Era una situazione assurda. A ricordarlo, proprio nella manifestazione del 30 giugno, fu un ufficiale dell'amministrazione alleata, il capitano Stephen Chambers. Spiegò con chiarezza che quei prigionieri erano rinchiusi in carcere da due mesi e non potevano più essere trattenuti senza accuse specifiche. Chi riteneva di incolparli per qualche reato preciso, aveva ancora qualche giorno di tempo. Poi i detenuti sarebbero tornati in libertà.»

«Ma alla fine di giugno, la macchina della strage si era già messa in moto» mi spiegò Livia. «Come ha scritto Silvano Villani nella ricostruzione più completa di questa tragedia, L'eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile, pubblicata da Mursia, un gruppo di partigiani aveva deciso di fare piazza pulita nella prigione di via Baratto e stava preparando l'azione. Poi tutto accadde in un lampo, la sera di venerdì 6 luglio.»

«Dieci o dodici partigiani di due Brigate Garibaldi, tutti della polizia ausiliaria, irruppero nel carcere tra le 22,30 e le 22,50. In quel momento, nella prigione erano rinchiusi novantanove detenuti: novantuno politici, otto comuni. Quasi tutti i politici, più di un'ottantina, vennero radunati in uno stanzone. Poi, un quarto d'ora dopo mezzanotte, i giustizieri cominciarono a sparare.»

«Morirono subito quarantasette prigionieri. Altri sei spirarono in ospedale. Conto finale: cinquantatré vittime, qualche fonte dice cinquantaquattro, comprese quindici donne. Altri diciassette rimasero feriti. Tra i giustiziati, di fascisti in vista ce n'erano pochi. Uno di loro era il commissario prefettizio di Schio. Ferito in modo non grave alle braccia e alle gambe, morì il 18 luglio all'ospedale, inspiegabilmente scrive Villani anche per la sua giovane età, 35 anni.»

«L'elenco delle vittime parla da solo» commentò Livia. «Non mi pare che qualcuno fosse un criminale da mettere al muro. Vennero giustiziate delle ragazze soltanto perché erano figlie o fidanzate di fascisti o di militari della Rsi. Altri, come le ho detto, avrebbero già dovuto essere in libertà. C'era, infine, un gruppetto di cosiddetti notabili della città: un primario chirurgo, un commerciante all'ingrosso, un dirigente d'azienda, un avvocato, un impresario, un farmacista che produceva specialità medicinali.

Ma la maggior parte dei giustiziati apparteneva a ceti meno fortunati: cinque operaie tessili, un cuoco, un meccanico, un barbiere in pensione, un portinaio, un tessitore, un calzolaio, un autista, un rappresentante di commercio, parecchi impiegati.»

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