Ecco i segreti di Lady Coin: «Tremila capi in 30 giorni»

Se si mette un tovagliolo al collo sembra un foulard di Hermès. Caterina Salvador, fashion director donna e bambino del Gruppo Coin, ha quella rara forma di eleganza istintiva che coniuga il bello con il giusto e il vero. Bionda con occhi verdi da gatta, fisico minuto e tempra d'acciaio, coordina un team di 150 persone e in media progetta 3000 pezzi al mese: un'enormità. Del resto lei si deve infatti confrontare con i numeri da capogiro di un gruppo che ha come ammiraglia OVS, il più grande fashion retailer italiano. Tanto per dare un'idea nei 592 negozi sparsi sul territorio nazionale (altri 133 sono all'estero) entrano e comprano 45 milioni di persone all'anno. Su due bambini italiani, uno è vestito OVS Kids. Poi c'è Coin con i suoi 101 negozi cui bisogna aggiungere l'altissima gamma di Excelsior Milano (un negozio nel capoluogo lombardo e uno a Verona) e la versione premium (Coin Excelsior) appena aperta a Roma. Come se questo non bastasse a fine mese verrà inaugurato in via Dante, a Milano, il nuovo concept store OVS per cui Caterina ha anche creato una collezione di 60 capi dedicati: 50 pezzi per tipo, prezzo medio 19/29 euro, tutti prodotti in Italia, acquistabili solo lì e su e-commerce. In questa intervista esclusiva la signora del fast fashion racconta i suoi segreti.
Come e quando ha iniziato?
«Nel 1983 come commessa di Emporio Armani. Avevo 19 anni e volevo fare qualcosa che mi avvicinasse al bello. Mio padre dipinge, il nonno era scultore: la moda mi sembrava il mezzo più semplice per trovare un mio linguaggio estetico. Ho chiesto aiuto al fratello della mamma: lo zio più incredibile che si possa immaginare, una specie di genio».
Non era Sergio Galeotti, socio e compagno di Armani oltre che co-fondatore del brand?
«Non l'ho mai detto, ma… sì, era proprio lui. Avevamo un rapporto terribile e magnifico, mi diceva sempre che avrebbe preferito un nipote di nome Giovanni con cui seguire il football americano, la sua grande passione. Era un uomo molto duro ma di grande generosità, purtroppo non ho avuto il tempo di vivere con lui il mio essere adulta».
Quando è diventata stilista?
«Presto. C'era un posto vacante all'ufficio stile, ho fatto domanda mi hanno messa a fare le cartelle colori in uno stanzino sopra alla mensa della Rinascente. Cominciavo alle 8 del mattino a sentire odore di cibo. Un giorno il signor Armani decide di farmi fare l'assistente della sua assistente e quando lei si è dimessa mi ha chiesto se me la sentivo di sostituirla temporaneamente. Rispondo sì e per 10 anni smetto di avere una vita mia. È stata una scuola impagabile».
La cosa più importante che ha imparato?
«Giorgio Armani è un maestro di vita, non solo di stile. Il suo gruppo di lavoro è come un club: per farne parte devi rispettare certe regole. Non basta lavorare, sposi una causa, l'appartenenza a un sogno che genera a sua volta i sogni della gente. In più io avevo il problema dello zio: tutti i giorni entravo in ufficio con lo scopo di non fargli fare brutta figura. È mancato il 14 agosto 1985, giorno della nascita di mia sorella. Da quel momento mi son dovuta confrontare anche con la sua assenza».
Dieci anni con Armani e poi?
«Mi sposo nell'87, resto incinta nel '92 e quando mia figlia Giulia ha un anno e mezzo decido prima di separarmi, poi di trasferirmi a New York. Entro da Calvin Klein dove resto 5 anni. Lui veniva un giorno sì e 10 no, però era un genio. Una volta mi ha detto “non so cosa fai, ma vendiamo molto di più, continua così”. L'ho fatto però soffrivo troppo di nostalgia. Così sono tornata a Milano partecipando alla start up di Hugo Boss Donna: un'altra esperienza basilare anche se breve. Poco dopo vengo infatti chiamata da Dolce & Gabbana come direttore dell'ufficio stile donna. Resto 9 anni».
Da Coin come arriva?
«Mi chiama un cacciatore di teste. Al primo colloquio con l'ad Stefano Beraldo in videoconferenza mi presento senza occhiali da vista e praticamente parlo con un'ombra sullo schermo. Anche così il carisma era palpabile. Lui non viene dalla moda ma ha una grande sensibilità sul prodotto, è l'uomo dei numeri con un'enorme capacità di sognare. Mi ha detto che questo non era un lavoro, ma una missione. Aveva ragione. Per il primo anno ho fatto il tragitto Mestre-Treviso parlando in conference call con lui e con Francesco Sama, il direttore generale di OVS. Sono due vulcani d'idee con un'energia fotonica».
Il risultato di cui è più orgogliosa?
«Vedere i miei colleghi con i nostri capi addosso. Ormai la sera si telefonano dagli uffici: domani io metto il bomber a fiori e tu la gonna bianca, ok? È il primo messaggio di branding, il più importante. Poi ci sono i numeri. Quest'anno il mercato ha fatto meno 10 mentre noi con Coin abbiamo fatto più 3, con OVS più 12 e con Excelsior più 10».
Non le manca la moda blasonata?
«Per niente, mi manca solo il tempo di fare una collezione diversa per ogni punto vendita.

E poi bisogna intendersi sul blasone: non è più una questione di prezzo ma di pubblico meno numeroso. Con 45 milioni di clienti non posso fare troppi voli pindarici. Se faccio un cappotto in pizzo rosso e ne vendo 2500, cosa sembra, l'Armata Rossa in giro per l'Italia? Mi si gela il sangue nelle vene al solo pensiero».

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