Ecco i vicoli ciechi per «spiare» la vecchia Milano

Dai Lavandai al Mapelli: a spasso tra viuzze e sentieri della metropoli per riscoprire le atmosfere di un tempo

Trovarsi in un vicolo cieco? A Milano non è poi così male, dove di stradine pittoresche se ne contano ancora una quindicina. Sentieri inglobati nello sviluppo urbano e per questo divenuti preziosi testimoni di una dimensione che non esiste da tempo. Il più noto e fotografato è il vicolo Lavandai, dove fino all’inizio degli anni Cinquanta le massaie lavavano i panni. Arrivavano con l’immancabile secchio di stagno in una mano e, nell’altra, una cosa simile al sapone che chiamavano «paltòn»: una amalgama fatta con grasso animale e cenere. Si intruppavano con le gerle colme di panni sui «brellini» di legno del vicolo per non intralciare il traffico della attigua Alzaia Naviglio grande, dove passavano i cavalli che dal Ticino trainavano i barconi dei «sabionatt».
Sempre in zona Navigli, dopo il civico 106 di Porta Ticinese, sopravvive il primo tratto di vicolo Calusca, oggi rifugio dei punkabbestia quando piove, ma fino ai primi del Novecento punto caldo dei traffici illegali che dal porto della Darsena, allora il decimo d’Italia per importanza, si diramavano in città. Malavita, disperati che tiravano la giornata tra un borseggio e un bicchiere erano la norma proprio qui, di fronte a Sant’Eustorgio e sotto la casa di tolleranza che i milanesi chiamavano «ca’ losca» e che diede il nome al vicolo.
Un breve e suggestivo viottolo creato per non intralciare il traffico sull’arteria principale è invece il vicolo Giardino «incastrato» tra i civici 17 e 19 di via Manzoni. È uno scorcio della Milano ottocentesca lungo una quarantina di metri che però è stato colpevolmente asfaltato. Un vecchissimo portone di legno posto sulla destra del vicolo suggerisce che proprio qui si fermavano gli ingombranti «marnònn», i grossi carri a cavalli tipicamente lombardi che rifornivano di legna e carbone il vetusto casamento
Anche lungo via Torino si aprono suggestivi scorci di passato. Come il vicolo Pusterla, al quale si arriva prendendo via della Palla e svoltando subito a destra. È un viottolo cieco, segnalato da una Madonna con bambino dipinta in un’edicola posta sull’angolo, che la tradizione ha soprannominato la «Vergine dei facchini». La bella dimora in mattoni che fiancheggia la stradicciola è di proprietà di una banca ma nel Trecento fu l’abitazione di Francesco Pusterla, discendente di Angilberto II, vescovo di Milano dall’824 all’859. Oggi il vicolo fa purtroppo da deposito alla Standa di via Torino con carrelli per la movimentazione delle merci ammassati proprio a ridosso dell’antico palazzo patrizio. Come se non bastasse, un distinto homeless irlandese ha eletto a propria dimora l’ultimo tratto del vicolo, dove ammucchia instancabile le sue mercanzie.
Poco distante dal Carrobbio e svoltando da via Torino in via S. Maria Valle, si arriva nel pittoresco vicolo omonimo che costeggia il lato sud del palazzo Stampa di Soncino realizzato nel XVI secolo. L’assetto del palazzo è uno degli esempi più affascinanti dell’architettura cinquecentesca di Milano.
Ma il fascino del minuscolo raggiunge il suo apice in vicolo Santa Caterina che si apre a sinistra di San Nazaro Maggiore, la basilica che risale al IV secolo, famosa per la cappella Trivulzio, iniziata nel 1512 dal Bramantino. Il vicoletto dove ancora oggi c’è una trattoria, sbuca dopo pochi metri in Largo Richini. Era uno dei luoghi più amati dai carrettieri degli inizi del Novecento per una bettola con mescita di vino «che ognuno, entrando – si legge in un saggio sulle osterie milanesi che risale agli Anni Trenta – trovava già bell’e servito nel bicchiere, sicché non avevano che da pagare i suoi cinq ghei, bere e andarsene».


Altri vicoli sopravissuti in centro sono il vicolo Piero Manzoni, a Brera, il Santa Margherita vicino a piazza Scala, il vicolo Ciovasso tra via dell’Orso e via del Carmine, il vicolo San Giovanni sul muro che nasce nella omonima via in zona Cairoli e il vicolo Laghetto che dal 1386 al 1850 fece da sponda alla conca del Naviglio più vicina a piazza Duomo. Sullo specchio d’acqua transitarono su barca 550 mila blocchi di marmo per la costruzione e la manutenzione della cattedrale.

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