Anche nel discorso comune, le parole «Internet» e «libertà» sono legate fra loro. Ogni volta che apre la finestra del suo browser, ciascuno di noi fa esperienza di una realtà fatta di interazioni sociali volontarie, basata sulla cooperazione spontanea fra individui, nella quale la presenza dello Stato si appalesa in modo sorprendentemente rarefatto - soprattutto rispetto al «mondo di fuori», alla realtà fisica. La libertà d’espressione pressoché illimitata (e coincidente con la «rivincita del telecomando»: la libertà di non stare ad ascoltare, e cambiare sito), la libertà d’associazione esercitabile a costo pressoché zero (con la formazione e la disgregazione di gruppi tenuti assieme solo dal desiderio di essere assieme), la facilità nel «fare spese» su un mercato che abbraccia tutto il globo. Internet è la libertà all’ennesima potenza: uno strumento che esalta l’individualità, abbassa i costi delle interazioni con gli altri, lascia spazio al «mercato» inteso come insieme delle relazioni libere, monetizzate o no, fra persone.
Non è allora un caso se la presenza «libertaria» sulla Rete è da sempre, soprattutto negli Stati Uniti, massiccia e assai più forte di quanto non sia mai stata nel mondo delle cose. Sistema d’idee spesso popolare fra i nerd, il libertarismo era predisposto a trovare in Internet la «cornice per utopie» di Robert Nozick: «un luogo in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica».
Questa lettura della Rete era più popolare a fine anni Novanta-inizio anni Duemila di quanto non sia oggi. Il numero di utilizzatori di Internet si è enormemente ampliato, e col consumo di massa i contenuti di riflessione politica sono diventati, com’è naturale, più periferici. È vero inoltre che, dopo la «Magna Carta» della Rete scritta dal futurologo George Gilder nel 1994, o la «Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio» prodotta in risposta al «Telecommunications Act» dell’amministrazione Clinton da John Perry Barlow, guru e ex paroliere dei Grateful Dead, l’interpretazione libertaria di Internet ha faticato a trovare espressioni intellettualmente «pesanti». Al contrario, sempre più rilievo hanno acquistato quegli intellettuali che il blogger Adam Thierer chiama «cyber-collettivisti» (espressione in realtà non particolarmente calzante) - come Yochai Benkler e Lawrence Lessig.
La differenza fra cyber-libertari e cyber-collettivisti sta, per così dire, nel perimetro assegnato all’utopia. Sono andate sempre più emergendo alcune grandi questioni: modelli «aperti» o «proprietari»? Tutto gratis o tutto a pagamento? «Tracking» del consumatore o difesa assoluta della privacy? Per non parlare dell’eterno rovello della proprietà intellettuale e del copyright: c’è un modo legittimo per tutelare i «diritti» di innovatori e artisti, o è inevitabile che qualsiasi tentativo implichi un appello allo Stato, per vedersi garantire un monopolio legale?
I cyber-collettivisti danno risposte nette, agli occhi dei cyber-libertari perfettamente legittime di per sé ma non per questo uniformemente applicabili al complesso della Rete. I cyber-libertari sono, invece, agnostici: rivendicano lo spazio per alternative diverse, in concorrenza una con l’altra, scommettendo sul discernimento degli individui.
Da una parte, si insiste sulla necessità di difendere una sorta di natura primigenia di Internet, che avrebbe nel principio della «gratuità» un segno caratteristico. Dall’altra, c’è l’idea che non esiste un solo modo per «condividere» così come non esiste una sola maniera in cui «si scambia». Su un punto cyber-libertari e cyber-collettivisti si ritrovano: nella difesa «organica» di Internet dalle pretese dei governi. Può apparire paradossale, se si pensa che di Internet siamo debitori al settore pubblico. La preistoria della Rete è Arpanet, programma governativo per la creazione di un network di comunicazioni militari sicure. Ma se la tecnologia di Internet ha matrice statale, l’Internet che conosciamo noi è l’Internet «commerciale». È quello che è grazie a imprenditori e imprese che hanno saputo individuare opportunità per estrarre valore da un progetto ideato per tutt’altri fini.
Il messaggio dei cyber-libertari rischia di diventare sempre più impopolare, ogni qual volta si scoprirà che gruppi violenti hanno fatto uso di social network per coordinare le proprie attività o reclutare nuovi adepti. Rendendo più economiche le relazioni sociali, Internet rende meno costoso anche «fare politica»: ne siamo stati tutti quasi «orgogliosi», nei giorni in cui sembrava che i giovani di Piazza Tahir potessero cambiare l’Egitto. È difficile difendere un mezzo di comunicazione su cui passano messaggi sgradevoli - come è difficile ricordare che la libertà di parola appartiene anche agli stupidi e ai razzisti. Nella «cornice per utopie» trovano spazio anche gli incubi. Le persone adulte sanno sopportare il dolore di convincerci, le persone pericolose sperimentano l’entusiasmo di reprimerli. Sempre di più la Rete ci farà capire di che pasta siamo fatti.
di Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto "Bruno Leoni"
www.twitter.com/a/amingardi
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.