La protesta contro la Gelmini (anzi: la Gelminì) è lontana mille miglia da qui, dove tra Rousseau e Montesquieu va già bene se ci si riesce a sdraiare per un po’ in giardino a godersi l’ottobrata romana, altro che le mattinate spese a compilare striscioni poi esibiti per le strade romane, collezione autunno-inverno 2008. Questa è la scuola dove la lingua straniera è l’italiano; dove si sfila sì, ma non a urlare la rabbia adolescenziale, bensì - dopo l’ultima campanella del vendredi - davanti alla bandiera tricolore, che poi non è nemmeno quello italiano. Questa è la scuola dove va la figlia di Santoro Michele, difensore televisivo della scuola pubblica e cliente per interposta persona - ma personalissimo assegno - della scuola privata. Pubbliche virtù, ma vizi privati. E che scuola privata, poi. Liceo «Chateaubriand», in via di Villa Patrizi, a un passo da quella Porta Pia dove Roma si riconsegnò all’Italia. Qui però Roma torna a essere francese. Sortilegi del privato d’importazione, soldi di casa nostra che ingrassano le vacche altrui: dove si paga non si sciopera, dove la moneta unge il meccanismo, quello funziona senza incepparsi. Perché qui si fa sul serio: la Santorina e i suoi compagnucci costano ai loro genitori da 3.486 a 4.074 euro l’anno più mille per l’iscrizione più 914 per la mezza pensione per cinque giorni a settimana più 286 per gli esami obbligatori. Il totale fatelo voi. Ma capite quanto sono lontane da qui le miserie della scuola pubblica? Un salasso pienamente giustificato, per carità. Vuoi mettere la soddisfazione di sapere tuo figlio à l’école mentre in città le classi sono muri per ragnatele? E il ciclo è completo, dalla culla alla Smart. «Si va dalla materna alle superiori - ci spiegano nell’administration -. Abbiamo tre sedi in tutto dove si insegna e si parla rigorosamente in lingua francese. Gli studenti sono 1.500, tra figli di diplomatici, di politici, membri della Fao e di altre organizzazioni internazionali». Qui funziona come nei salotti che contano: è non esserci che fa rumore. Anche se: «In tanti ci provano, spesso spinti dai genitori, ma non tutti ci riescono - ammette un’impiegata - il livello è alto, non è ammesso il minimo errore di grammatica, abbiamo cominciato da poco eppure già in quattro hanno rinunciato». Dura, la vita del rampollo radical chic. E una volta che ci si è, nemmeno basta. Bisogna anche apparire, rispettare l’inesorabile dress code dei giovanotti-bene: tutti con denti sbiancati, capelli cotonati, polo e jeans delle solite tre marche, scarpe e zainetti fabbricati con lo stampino. Devianza? Qu’est-ce que c’est? Poi, appena usciti dalle classi, sciamando per le scale, i ragazzi archiviano la erre moscia e si riappropriano dello strascicato romanaccio, si annodano stretta stretta la sciarpa della Roma - vabbé il francese, ma ’sto Chateaubriand mica è stato mai capocannoniere: meglio Totti -, e si fumano i pacchi di sigarette nascosti sotto la sella. «Mio padre ha insistito perché mi iscrivessi qui, a me non sarebbe mai venuto in mente», ci confessa Stefano. «Ci sono parecchi stranieri, è vero, ma altrettanti sono figli d’italiani delle migliori famiglie cittadine», aggiunge candidamente un compagno. Sulla riforma Gelmini non si pronunciano, forse nemmeno sanno cos’è.
Di certo non provano invidia per i loro coetanei che in questi giorni se ne vanno in giro all’aria aperta. «Da lunedì fino al 4 novembre la scuola è chiusa, qui di vacanze ne abbiamo tante, nemmeno potete immaginare quante sono». Noblesse oblige.(ha collaborato Marco Morello)
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