Bando ai giri di parole. L’Italia entra in guerra. Non c’èaltro modo per definire la decisione presa ieri dal governo. Sotto il cappello dell’Onu, i nostri caccia e le nostri navi parteciperanno ai bombardamenti della Libia per fare cadere il dittatore Gheddafi. Per una suggestiva coincidenza, la decisione finale era stata presa l’altra sera al Teatro dell’Opera di Roma, dove Napolitano, Berlusconi, Letta e La Russa stavano assistendo al «Nabucco » celebrativo dei 150 anni dell’Unità. Mentre in sala risuonavano le note del «Va’ pensiero», inno alla libertà dei popoli, nel foyer riservato alle spalle del palco reale veniva messa a punto la risposta che il consiglio di sicurezza dell’Onu, riunito a New York, attendeva: l’Italia non solo metterà a disposizione delle forze Nato le proprie basi (senza le quali un attacco sarebbe problematico), ma sarà della partita con suoi uomini e mezzi.
Gheddafi è un dittatore, più pazzo che sanguinario, con trascorsi da terrorista. Questo è bene dirlo subito e tenerlo presente sempre. Ciò nonostante, con lui l’Italia aveva trovato a fatica una convivenza dettata esclusivamente da interessi. Dalla Libia infatti arriva una importante parte del nostro petrolio, molti miliardi di euro libici sono investiti in nostre aziende strategiche, la Libia è decisiva nel fermare l’ondata di clandestini che si vuole riversare sulle nostre coste. Che fine farà il recente trattato che dopo anni di incertezze ha regolato tutto questo? Non lo sappiamo, perché nessuno è in grado di dire che cosa accadrà una volta caduto Gheddafi. Quella che è in corso a Tripoli non è infatti una guerra di liberazione come la intendiamo noi in Occidente (via il tiranno arriva la democrazia) e neppure è paragonabile alle rivolte che hanno scosso Egitto e Tunisia (popoli affamati e anni di repressione feroce). Il reddito medio dei libici è il più alto tra quello dei Paesi africani, e più che una lotta tra il bene e il male, da quelli parti è da sempre in corso una guerra tra tribù, che ancora costituiscono l’ossatura sociale e politica del Paese.
Bombardare la Libia è quindi un salto nel buio, necessario per mettere al riparo i rivoltosi dalla vendetta del tiranno che stava per riprendere il controllo del territorio. Operazione nobile e a questo punto necessaria, anche se al regime, nei primi giorni della crisi, sono stati imputati dalla stampa araba bombardamenti a tappeto su folle inermi che si sono poi dimostrati un falso. Gheddafi non ha l’atomica ( ha cercato di farsela ma soprattutto Bush padre l’ha riportato a miti consigli con la forza), quindi non può essere una minaccia per il mondo. La sua forza militare non è in grado di portare seri pericoli all’Occidente.
Nonostante questo, Francia e Inghilterra, per motivi umanitari ma anche per interessi, hanno spinto molto per una soluzione militare e hanno lavorato sulle diplomazie del mondo. Obama, alla fine, ha detto sì.L’Italia poteva starne fuori? La risposta è no. Il destino della Libia è anche affare nostro, e non soltanto per motivi storici o di vicinato. L’italietta è diventata grande (150 anni) e deve prendersi le sue responsabilità nell’intricato e non sempre trasparente gioco dei rapporti internazionali. Non possiamo lasciare fare, né a Gheddafi di massacrare i suoi, né a Sarkozy e soci di mettere mano da soli sulla Libia, sui nostri interessi economici e sulle nostre strategie politiche.
Non abbiamo scelta, non perché succubi ma per l’esatto contrario: non vogliamo più subire decisioni di altri. La novità è che Berlusconi non ha usato i sotterfugi e le ipocrisie dei suoi predecessori coinvolti in analoghe, drammatiche scelte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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