Ecco perché in Myanmar c'è stato il golpe militare

Risultati elettorali annullati e arresti di massa solo per timore che i generali perdessero potere e privilegi

Ecco perché in Myanmar c'è stato il golpe militare

Il primo febbraio il Tatmadaw l'esercito del Myanmar ha preso il potere con un colpo di Stato, proprio nel giorno in cui i vincitori delle ultime elezioni del National League for Democracy (Nld) di Aung San Suu Kyi si sarebbero dovuti riunire nella capitale Naypyidaw per l'inaugurazione del nuovo Parlamento. Min Aung Hlaing, il numero uno delle forze armate, ha preso il controllo del Paese e ha nominato l'ex generale Myint Swe presidente ad interim. In simultanea con il golpe militare, diversi esponenti di spicco del movimento per la democrazia, compresa la stessa Suu Kyi, sono stati arrestati. Nei giorni successivi sono iniziate le proteste di piazza in molte città del Paese, che hanno visto centinaia di migliaia di persone chiedere la liberazione dei detenuti politici e il rispetto dei risultati elettorali del novembre scorso, che hanno visto la vittoria schiacciante del Nld.

Nelle settimane prima del golpe, i militari avevano denunciato irregolarità nelle votazioni, affermando «di aver identificato milioni di casi di frode» minacciando di «passare all'azione» se le accuse di brogli non fossero state considerate dal governo. Secondo Zachary Abuza, docente al National War College di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico, «il golpe era prevedibile perché l'esercito aveva la legittima preoccupazione che con l'83% dei voti, la Suu Kyi potesse spingere per emendamenti costituzionali che li avrebbero indeboliti. Con un forza elettorale così schiacciante, infatti, la leader del Nld, al contrario del primo mandato, dove sostanzialmente non ha fatto nulla per provare a cambiare la situazione, avrebbe anche potuto non fare dei compromessi con loro». Nonostante si sia spesso parlato di un nuovo corso del Myanmar verso la democrazia, facendo di fatto aprire il Paese agli interessi occidentali, i militari hanno continuato ad avere un enorme potere, controllando la vita politica, economica e sociale della ex Birmania. «Credo che l'Occidente sia stato troppo frettoloso nel definire la Birmania una democrazia e allentare le pressioni in questi anni. Dal 2015, nel migliore dei casi, si è trattato di un regime ibrido o una quasi democrazia. È chiaro che dopo cinque decenni di dittatura militare, gli ultimi sviluppi politici sono stati promettenti», sostiene Abuza.

«L'esercito ha sempre mantenuto un potere incredibile. Basti pensare che il 25% del parlamento è riservato a loro indipendentemente dall'esito delle elezioni e controllano anche il ministero degli Interni, quello della Difesa e quello per gli Affari di confine, oltre a gestire vaste fasce di risorse naturali, che anche grazie alla guerra costante nelle zone etniche, gli garantisce privilegi unici», spiega l'analista. Ma non solo: la vecchia giunta militare che ha comandato e insanguinato il Myanmar per decenni, è parte del Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, che in qualsiasi momento gli avrebbe permesso di modificare le leggi considerate pericolose per l'unità e la sicurezza della Nazione.

Min Aung Hlaing è il numero uno delle forze armate birmane dal 2011, proprio in concomitanza con l'inizio della transizione democratica del Myanmar. Da soldato taciturno si è trasformato in un politico molto attivo e in poco tempo è diventato l'uomo più potente del Paese. Nominato a capo delle forze armate al posto del generale Than Shwe, padre-padrone del Paese dal 1992 al 2011 e tuttora «padrino» del Tatmadaw, è stato considerato l'uomo giusto per garantire la continuità delle pressioni militari nella vita politica birmana, anche se ha ricevuto condanne e sanzioni internazionali per il suo ruolo nelle atroci violenze contro la minoranza musulmana Rohingya. Nel 2018, infatti, una missione indipendente istituita dal Consiglio dei diritti umani dell'ONU aveva accusato proprio Min Aung Hlaing e diversi alti funzionari militari di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra.

Nonostante il controllo costante dell'esercito nel Paese, durante questi ultimi anni le sanzioni internazionali sono state revocate e il denaro degli investitori stranieri, delle istituzioni finanziarie internazionali e delle agenzie di aiuto si è riversato in Myanmar, facendo ingrassare i portafogli dei vecchi generali del Tatmadaw. «Le riforme non sono mai state intese a realizzare la storia di successo democratico in cui il mondo era così disposto a credere», spiega Yadanar Maung, portavoce di Justice for Myanmar (Jfm). Ma «erano semplicemente la fase successiva di un piano diverso e più oscuro per espandere la ricchezza dell'élite militare. La fase precedente era quella di stabilire una rete di canali in tutte le parti dell'economia per garantire che i benefici del boom economico della Nazione fluissero direttamente ai vertici delle forze armate».

Il futuro della ex Birmania è incerto, ma sicuramente i militari non lasceranno il potere facilmente. Secondo il decente del National War College di Washington, «sebbene l'esercito abbia annunciato di mantenere il controllo per un anno e voler poi tenere nuove elezioni, ci troveremo di fronte a una situazione molto simile a quella che stiamo vedendo in Thailandia, dove lo stato di emergenza è stato esteso.

Penso che studieranno ciò che il premier Prayut Chan-o-cha ha fatto nel suo Paese: partiti politici esautorati, potere consolidato nelle mani di organismi non eletti e controllati dai militari». Non a caso, infatti, nei giorni scorsi Min Aung Hlaing ha inviato una lunga lettera al leader thailandese spiegando i motivi del golpe e chiedendogli supporto.

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