Siena - «Patria, socialismo o muerte. Venceremos!», strillano le gigantesche scritte sui palazzi di Caracas. Hugo Chávez s'atteggia a discendente diretto di Simón Bolívar: eroe della revolucíon anti-imperialista, uomo nuovo del sogno venezuelano, soldato col basco dalla parte dei diseredati. Ma è proprio così? La minaccia, documentario di Silvia Luzi e Luca Bellino molto applaudito alla rassegna «Hai visto mai?», prende il titolo da un preoccupato studio del Pentagono, stilato nel 2006. Vi si legge: «Chávez e la sua rivoluzione bolivariana sono la più grande minaccia dai tempi dell'Unione sovietica e del comunismo». Nondimeno Chávez, inquietante mix di populismo, castrismo e dispotismo, tira diritto. I venezuelani continuano a votarlo dal 1998, riservandogli ogni tanto un salutare dispiacere. Come è successo il 2 dicembre 2007 quando, per 300mila voti, il presidente s'è visto bocciare il referendum sulla riforma costituzionale che gli avrebbe affidato poteri assoluti, inclusa la possibilità di essere rieletto a vita, «per 7, 10, 20 anche 40 anni». Uno smacco inatteso, al quale Chávez, incassata la sconfitta, ha replicato con l'ennesima minaccia: «Per ora non ci siamo riusciti, per ora!».
La storia del documentario, girato con poco più di 5.000 euro, ha dell'incredibile. Ma ancora più incredibile è la sorte di cui è stato vittima sul fronte della Rai. Scelto da Gianni Riotta e David Sassoli per uno speciale del Tg1, sarebbe dovuto andare in onda proprio il 2 dicembre del 2007, il giorno del referendum. Tempismo perfetto, giornalismo sul pezzo. Invece, all'ultimo momento, mentre a Caracas si votava, il documentario su Chávez fu sostituito da Beppe Viola, sportivo sarà lei! I due autori aspettano ancora spiegazioni. Hanno chiamato e richiamato al telefono: nessuna risposta. E sì che Riotta aveva a disposizione uno scoop mica male. La minaccia si apre infatti con un'intervista in esclusiva, sull'aereo presidenziale, nella quale Chávez avverte: «Non farò la fine di Saddam Hussein. Lui non aveva carri armati e bombardieri, noi abbiamo i Sukhoi, gli aerei più moderni del mondo. Ascoltatemi: quando altrove finirà il petrolio, nel Venezuela ce ne sarà ancora molto. Per questo dobbiamo difenderci».
Rivela, dispiaciuta, Silvia Luzi: «Non so cosa sia successo. Appena rientrati da Caracas, nel settembre 2007, abbiamo mostrato un primo montaggio a Riotta. Piacque molto, ci chiese di tagliarlo a 70 minuti e di farlo doppiare per la messa in onda, prevista, appunto, per domenica 2 dicembre. Ma qualche giorno prima, vedendo il trailer, abbiamo capito che qualcosa non andava. Eppure la Rai l'aveva acquistato per un anno e tre passaggi. Il 30 novembre 2008 tornerà nostro».
Intanto giace in qualche cassetto. A esser pignoli, quando La minaccia entrò a marzo nella cinquina dei David di Donatello, Sassoli promise all'Ansa: «Rimedieremo appena spenti i riflettori sulle elezioni di primavera». Invece nisba. L'ha recuperato Luca Zingaretti per il suo festival del documentario, nella versione lunga di 86 minuti, aggiornata dagli autori alla luce del risultato referendario. Ma resta la domanda: perché il Tg1 l'ha «congelato»? «Non parlerei di censura, ma certo tutto suona strano», scandisce Bellino.
Ipotesi possibili. Un riguardo nei confronti di una grande azienda italiana, che stava per firmare col Venezuela un accordo per la raffinazione del petrolio dell'Orinoco? Un modo per evitare imbarazzi all'allora presidente della Camera, il compañero Fausto Bertinotti, instancabile supporter di Chávez? «Non sappiamo proprio cosa pensare», si arrendono i registi.
Eppure La minaccia è un esempio di ottimo giornalismo. L'intervista col caudillo venezuelano offre lo spunto per un'inchiesta ad ampio raggio. Così Luzi e Bellino mettono a confronto, senza ricorrere alla voce narrante, luci e ombre dell'era Chávez: la lotta a fame e analfabetismo e gli ospedali prossimi al collasso; il fervente sostegno dei ceti popolari («Il presidente è un uomo unto da Dio») e i timori della comunità italiana («viviamo in un'economia fittizia, abbiamo paura di finire come a Cuba»); lo sviluppo del lavoro cooperativo e la rivolta degli studenti universitari dopo la brutale chiusura della storica RadioCaracasTv.
Ne discende che i miracoli promessi dall'onnipresente propaganda socialista impallidiscono nel ritratto di un Venezuela squassato dalla criminalità nelle favelas, dall'imposizione di regole assurde o di idee strampalate, come ribattezzare Caracas «La culla di Bolívar».A proposito: sarà un caso che i due autori, arrestati per alcune ore, hanno corso il rischio di vedersi sequestrare il materiale girato?
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