Eco tira su i grattacieli con il Viagra

Ai tempi di Aristofane i filosofi vivevano tra le nuvole. Ora i filosofi sono in via di estinzione e le nuvole non le guarda più nessuno, neppure i bambini in cerca di strane figure, quelle nuvole a forma di navi, pecore, case con finestre, volti di stregone, gatti bianchi e gatti neri. Ora ci sono solo vecchi semiologi e quando scrutano il cielo immaginano più che altro grattacieli. È quello che capita a Milano in questi tempi, dalle parti della Fiera, dove un giorno sorgerà il futuro, quella che chiamano City Life. La colpa è dell’architetto Daniel Libeskind e della sua torre sbilenca. Libeskind è un americano di origine polacca, come Charles Bukowski, quel simpatico ubriacone autore di Taccuino di un vecchio porco. Particolare che in questa storia non è del tutto irrilevante.
Il grattacielo, che ancora non c’è, a noi umani appare come l’opera sublime di un muratore sbronzo. Perfetta, magari, per l’orizzonte di Pisa. Ma i vecchi semiologi non sono mai così banali. Dietro le cose loro vedono l’intimità. È del tutto ovvio, quindi, che quando un giornalista chiede a Umberto Eco un parere sul grattacielo, la risposta non può non essere che una summa teologica del pensiero laterale. «Milano è piena di gente che ha il membro storto: ce ne sarà uno in più e prenderà il viagra».
Eco guarda in cielo ed evoca un famoso romanzo di Aldo Busi dove si parla di canguri, pochissimi canguri. È senza dubbio, il suo, un simpatico gioco intellettuale. Quando uno parla di grattacieli e vede cazzi lo fa per due nobilissimi motivi: rinnovare una lunga tradizione di analogie falliche in architettura (se fate un giro sul web trovate anche un saggio post-femminista sui simboli fallici nell’epopea metropolitana di Paperinik e Spider Man) e costringere qualche babbano che scrive sui giornali ad aprire il dibattito sull’argomento. Il secondo obiettivo è stato subito centrato. Il primo è un po’ più laborioso, ma se tutti si impegnano qualcosa si riesce a fare.
La sfida è alta e merita una menzione speciale al premio Calvino. Anche perché a lanciarla è l’uomo che ha conquistato il mondo conosciuto con Il nome della Rosa, ma soprattutto è l’autore di tre meravigliosi capolavori dell’arte del cazzeggio: Fenomenologia di Mike Bongiorno, Diario Minimo e Come si scrive una tesi di laurea.
Qualche spunto per i valorosi cavalieri che vogliono intraprendere l’impresa. Cosa vede Freud quando nel 1909 sbarca a New York? Uno skyline di simboli fallici. E senza dubbio Eco sarà d’accordo nel dire che tutto è fallico in una mente laterale. Lo sono la Torre di Babele, i fasci romani, i liocorni dell’Ariosto, l’indice alzato di Mennea a Mosca 1980, la spada laser di Obi-Wan-Kenobi, l’obelisco di Axum, la penna Bic, le scuse di Ronaldo, l’indice Mib della Borsa, l’ombrello di Mary Poppins (ma solo quando è chiuso), le Camel viste con la lente d’ingrandimento e la bacchetta magica di Harry Potter. Ma la portentosa, geniale, intuizione di Eco è qualcosa di più. È circoscrivere con poche, definitive, parole il «fallo della decadenza».
Non più il simbolo del potere che si erge monumentale nel suo desiderio di potenza verso Dio e oltre le nuvole, ma la malinconia di una virilità perduta, che rinuncia a spiccare il volo, carica di dubbi, paure, incertezze, schiacciata dal peso esistenziale verso la terra e accartocciata intorno al proprio ombelico. È il «cetriolo erotico», noto anche come suppostone, di Norman Foster a Londra. È l'Agbar Tower di Barcellona, firmata da Jean Nouvel, che gli spagnoli, con il loro proverbiale stile, chiamano semplicemente «El Carajo». È la torre tubolare che Massimiliano Fuksas ha progettato in Liguria, alta 120 metri, con curvatura sospetta e soprattutto senza punta. E lui l’architetto che replica: «Un simbolo fallico? Ma no, ciascuno può vederci quello che vuole. Per me, ad esempio, sembra una tromba, una tromba d’aria». È il moscio che avanza.
È forse questo, sembra suggerire il retropensiero di Eco, l’immagine della nostra era? Il tramonto dell’uomo che per riprodursi oltre i suoi limiti fisici ha bisogno del doping dell’amore, della pillola blu che riscrive l’evoluzione della specie disegnata da Darwin.

È il viagra, forse, che ci distanzia, e distingue, dalle scimmie e ci avvicina ai puffi? Questi sono gli interrogativi che ci lascia l’illuminante risposta di Eco, dotto ambasciatore del made in Italy. E come diceva Louise Veronica Ciccone: «Italians do it better». Grazie professore per averci aperto un mondo. Un mondo a forma di grattacielo.

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