EBay fattura 9,4 miliardi di euro e ha un carico fiscale di circa 150 milioni. Un caso? Non proprio. I grandi gruppi websoft, secondo un'analisi dell'ufficio studi di Mediobanca, pagano in media il 14,1% di tasse sui profitti, meno della metà rispetto all'imposizione fiscale a cui è soggetta, tanto per dire, una persona in Italia e meno di un quarto rispetto al carico fiscale che grava sulle aziende tricolori (che, secondo un recente studio di PwC e Banca Mondiale è pari al 59,1%). Tutto merito di una fiscalità agevolata offerta spesso oltreconfine, di crediti di imposta e della riforma fiscale Usa approvata a fine 2017. Il corposo studio, pubblicato ieri, ha preso in esame i 25 colossi del cossidetto «websoft»: sono attivi nel commercio digitale, nella vendita di servizi online e nella produzione di software. Da Amazon ad Alphabet (Google) e Alibaba, fino a Microsoft, Facebook, Netflix, Booking, Uber ed Expedia.
Un variegato universo di società, di cui 14 americane (tutte con sede nel paradiso fiscale del Delaware, tranne Microsoft), 7 cinesi (tutte alle Cayman), due giapponesi e due tedesche, da cui è esclusa, per ora, Apple per motivi legati alla tipologia di business. In attesa di verificare se date le dimensioni relativamente piccole si tramuteranno in prede o futuri giganti, rimangono fuori dal perimetro anche brand famosi come Twitter, Groupon, Airbnb, Lyft, TripAdvisor, Dropbox e Snap.
I primi 25 gruppi websoft al mondo capitalizzano oltre 5 miliardi (pari a otto volte Piazza Affari), danno lavoro a 2 milioni di persone e hanno generato vendite nel 2018 per 850 miliardi e utili per 110. Ma soprattutto, tra il 2014 e il 2018, sono stati in grado di risparmiare 49 miliardi di tasse grazie a Paesi in cui è loro riservata una imposizione fiscale favorevole.
Considerando anche Apple che da sola, nello stesso arco temporale, è riuscita a risparmiare 25 miliardi, il gruzzolo messo nel salvadanaio sale a 74 miliardi.
Per quanto riguarda il nostro Paese, il campione di società analizzato dà lavoro a 9.840 persone e, nel 2018, ha registrato un giro d'affari di 2,4 miliardi e utili operativi 129 milioni su cui sono stati versati 64 milioni di imposte.
Lo studio tuttavia sottolinea come la liquidità riconducibile alla presenza delle 25 websoft sul territorio italiano (come, ad esempio, crediti vantati dalle controllate nei confronti di capogruppo estere) sia ben maggiore e pari a 864 milioni di cui solo 121 milioni presenti nel BelPaese. La piscina ormai è quasi prosciugata avverte lo studio secondo cui l'84,7% della liquidità (864 milioni) prende il volo verso il Lussemburgo (243 milioni), i Paesi Bassi (412 milioni) e l'Irlanda (77 milioni).
Ed è proprio la cassa detenuta dalle società websoft a livello mondiale a incuriosire maggiormente. Secondo l'analisi di Mediobanca i primi 25 gruppi hi-tech al mondo possono contare su una liquidità di 507 miliardi di cui il 22% investiti in titoli a breve termine (prevalentemente titoli di Stato Usa), una percentuale lontana anni luce dalle medie dell'industria manifatturiera (dove solo il 3% della liquidità è investito in titoli a breve termine) e più elevata persino di quella vantata dagli istituti di credito (21%). Per questo il report si chiede se questi colossi tecnologici possano essere ritenuti una sorta di istituzioni finanziarie travestite.
Una simile montagna di liquidità è destinata a tramutarsi in un vero e proprio "bazooka" in grado di acquisire le migliori start up sul mercato, sempre che non si decida di restituirlo agli azionisti sotto forma il riacquisto di azioni proprie o super dividendi.
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