È giallo sul patto di Mediobanca

Alcuni soci meditano di disdettare l'accordo a settembre. Ma Unicredit e i francesi fanno muro: «Mai parlato di questo»

È giallo sul patto di Mediobanca

Dopo aver rottamato le proprie partecipazioni «salottiere» come Telecom Italia e Rcs-Corsera, anche Mediobanca potrebbe perdere il suo patto di sindacato: le disdette potrebbero essere depositate a fine settembre. A voler uscire dall'accordo, già sfoltito nel 2014 eliminandone la partizione in tre gruppi, sarebbero alcune di quelle famiglie capitalistiche italiane che hanno fatto «sistema» con l'istituto dai tempi di Enrico Cuccia. Oltre ad alcune che detengono però pacchetti frazionali, gli indiziati sono i Pesenti (1,56%), che erano già parsi scettici sull'opportunità di rinnovare l'intesa, e i Benetton (2,16%) che stanno facendo lo stesso nella holding Sintonia.

Malgrado manchino sette mesi alla finestra di settembre, l'accordo parasociale pare quindi destinato a dimagrire ulteriormente dall'attuale 31,4%. La fine dell'accordo scatterebbe però in automatico solo se le adesioni scendessero sotto la soglia del 25 per cento. E ieri la Unicredit di Federico Ghizzoni, primo azionista con l'8,5%, ha fatto sapere di non aver mai pensato di dire addio al sindacato di blocco della banca guidata da Alberto Nagel, negando che ci siano state discussioni in tal senso. Così come non è atteso il disimpegno né del finanziere bretone Vincent Bolloré, che anzi ha facoltà di salire dal 7,5% all'8%, né di Pirelli (1,82%) che esprime il vicepresidente Marco Tronchetti Provera. Le altre quote di maggior peso sono nelle mani di Mediolanum (3,37%), Fininvest (1%) e della società veicolo Fin.Priv (1,66%) che riunisce gli interessi di Generali, Fca, Unipol, Italmobiliare, Pirelli e Telecom. «Non mi risulta» che il patto di Mediobanca possa sciogliersi a settembre. «Non ne abbiamo mai discusso come soci», ha detto il consigliere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, vicino a Bolloré. In sostanza il patto dovrebbe tenere, a meno di un ammutinamento dei Benetton e dei «piccoli»: Gavio (0,68%), Ferrero (0,66%), Pecci (0,47%), Angelini (0,46%), Lucchini (0,39%), Zannoni (0,3%), Mais Partecipazioi Stabili dei Seragnoli (0,22%), Vittoria Assicurazioni (0,14%), la Candy della famiglia Fumagalli (0,13%) e Romano Minozzi (0,11%).

Per Mediobanca la fine del patto significherebbe dire addio a quella che è stata la principale stanza di compensazione del capitalismo italiano. Non solo, Piazzetta Cuccia diverrebbe scalabile, e chi se ne impadronisse (in Borsa vale 7 miliardi) avrebbe in mano il 13,5% di Generali che ha 28,5 miliardi di capitalizzazione.

Piazzetta Cuccia ha poi aperto il cantiere della governance, così da adeguarla entro l'assemblea di ottobre alle indicazioni di Bankitalia: la riforma scatterà dal 2017. Ieri Nagel e il presidente Renato Pagliaro hanno chiamato i consiglieri a una riunione informale, allargata ad altri stakeholder. L'idea è ridurre i posti nel board da 18 a 15, di cui 3 e non più 5 per i manager (resterebbero Pagliaro, Nagel e il direttore generale Francesco Vinci); le minoranze salirebbero invece da uno a due.

Da decidere infine la permanenza del comitato esecutivo che, però, visto l'input della Vigilanza, difficilmente potrà essere ancora presieduto da Pagliaro.

Il patto parasociale, che oggi blinda il 31,4%, si scioglie in automatico se scendesse sotto quota 25%

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