La prima impresa italiana è lo Stato

La prima impresa italiana è lo Stato

Lo Stato, attraverso la mani del Tesoro, è il primo grande «imprenditore» italiano, inseguito da una pattuglia di capitani d'industria (privati) che camminano sorreggendosi alla «gruccia» dell'estero, per evitare la lastra di giacchio dei consumi creata dalla recessione.
A disegnare la big corporate italiana è Mediobanca, condensando nello studio «Le principali società italiane» oltre 3.500 bilanci di industrie, società di servizi, holding e finanziarie. La multinazinale Eni, controllata dalla Cassa depositi e prestiti, mantiene grazie al petrolio il primato nel 2012 di fatturato (127,2 miliardi) e di utili (7,78 miliardi). Sul fronte dei ricavi la la società guidata da Paolo Scaroni è tallonata dagli Agnelli con Exor (110,6 miliardi, il 15% in meno del gruppo petrolifero) che nel primo semestre 2013 ha ridotto ancora il divario grazie a vendite per 55,1 miliardi (il 7,5% in meno rispetto ai 59,3 miliardi di Eni). Tutto questo avviene però grazie alla controllata americana Chrysler, visto che le vendite italiane persano solo per l'8,7% in casa Exor, abbastanza per autorizzare un sorriso davanti al dibattito su dove avrà sede la «grande Fiat». In terza posizione c'è Enel (82,6 miliardi il fatturato), superata - in una sfida tutta pubblica - negli utili dalle Poste (865 milioni contro 1,03 miliardi). Ed è il gruppo di Massimo Sarmi a guadagnare peso nel grande «capannone» dello Stato. Le Poste, appena chiamate al capezzale di Alitalia, sono contemporaneamente il terzo gruppo assicurativo italiano dopo Unipol (10,5 miliardi di premi Vita) e la sesta banca italiana per raccolta (48,7 miliardi). Frullando tutto, si ottiene una realtà da 20,5 miliardi che varebbe la il sesto posto in classifica: la sola attività di portalettere la rilegherebbe invece al 28mo. A proposito la Alitalia dei «capiani coraggiosi» è trentacinquesima, dieci posti più giù del 2007. Subito dietro ai big pubblici, c'è Patrizio Bertelli con Prada che, con borse e abbigliamento,ha guadagnato nel biennio 2011-12 più della Fiat. Sintomo di un'Italia ormai rappresentata nel mondo dai suoi grandi atelier.
Rafforza la sensazione della desertificazione del nostro sistema industriale, il fatto che nelle prime venti posizioni il made in italy schieri solo 5 gruppi manifatturieri: è uscita dagli schermi anche l'Ilva del gruppo Riva, ormai commissariata. Situazione appena mitigata dal fatto che lo studio di Piazzetta Cuccia non considera i gruppi nostrani basati all'estero: l'acciaio di Tenaris della famiglia Rocca (8,4 miliardi di fatturato), i semiconduttiri di Stm (6,6 miliardi) e la Ferrero che ricava 7,8 miliardi dalla Nutella. Fanno eccezione, poi, Luxottica e Pirelli che guadagnano posizioni in classifica, anche in questo caso, però, grazie al l'assetto multinazionale: l'ascesa della Bicocca estromette dalla top 20, Fininvest che, paga la battuta d'arresto della raccolta pubblicitaria nel mondo dell'editoria. Un settore, a dimostrazione dei cambiamenti in atto, dove Sky Italia sorpassa la Rai sul fronte dei ricavi, mentre Mediaset si conferma la principale impresa televisiva italiana, sia pure con un fatturato in flessione del 12,5%. La società con il poco invidiabile primato delle perdite è invece Telecom (1,6 miliardi di euro e 6,4 miliardi negli ultimi due anni), quindi Finmeccanica, che paga ancora il peso dell'acquisizione dell'americana Drs e Rcs.


Ma l'«Impresa-Italia» è fatta anche di realtà meno grandi (fatturato tra 50 e 330 milioni) ma «dinamiche» come la bolognese Valsoia (cui fa capo il marchio Santa Rosa), la fiorentina Stefano Ricci (alta sartoria maschile, che exporta il 92% dei prodotti) e la milanese Branca International che vende all'eestro il 72,5% dei suoi liquori, Argentina in testa.

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