La sirena d'allarme è suonata all'inizio di settembre, quando la Banca centrale d'Olanda (Dnb) ha comunicato al ministro delle Finanze, Sigrid Kaag, la peggiore delle notizie: bilancio in rosso. Un infarto contabile di cui l'ultimo precedente risale al giurassico 1932. Antichi fantasmi, resi ancor più spaventosi poiché il grido di dolore di Amsterdam non è destinato a rimanere isolato. Per le altre banche centrali dell'eurozona si prospetta identica sorte, essendo la causa delle perdite la stessa per tutte: quel rialzo dei tassi d'interesse contro cui Giorgia Meloni, sulla stessa lunghezza d'onda del presidente francese Emmanuel Macron e della premier finlandese Sanna Marin, ha ieri alzato la voce ricordando che si tratta di una scelta «da molti reputata azzardata e che rischia di ripercuotersi sul credito bancario a famiglie e imprese». A maggior ragione dopo la decisione di rottamare il programma di acquisto titoli che ha creato «una difficoltà aggiuntiva a quegli Stati membri che hanno un elevato debito pubblico».
Nell'impeto di far piegare la testa all'inflazione, la Bce non sembra infatti aver ben calcolato conseguenze che potrebbero essere drammatiche. A cominciare dalle banche che ne compongono l'ossatura. La Dnb ha stimato di dover far fronte, nel periodo 2023-2026, a un buco di 9 miliardi di euro che, in assenza di interventi correttivi, dovrebbe essere ripianato dallo Stato olandese, controllore della banca. Un vero e proprio bail-out a spese dei contribuenti. Lo stesso potrebbe accadere altrove. Anche in Italia, dove Bankitalia resta un ente pubblico nonostante l'azionario sia composto per lo più da banche private. A soffrire di più saranno però gli istituti del Nord Europa, come la Bundesbank: gli scarsi introiti derivanti dai loro titoli pubblici, comprati durante il Qe, presentano ora un conto salato.
«Le banche centrali dell'Eurosistema dovranno affrontare una riduzione del proprio reddito netto e persino perdite nette», ha ammesso la Bce alla piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money. Stanno insomma venendo al pettine i nodi creati da Francoforte dopo anni di politica monetaria lasca. Le banche sono state il canale lungo cui convogliare gran parte della liquidità messa a disposizione prima da Mario Draghi e poi da Christine Lagarde. Attraverso le aste Tltro, gli istituti hanno preso in prestito 2.200 miliardi. Quattrini che sono poi andati a gonfiare le loro riserve, balzate dai 235 miliardi del 2015 ai 4mila miliardi dello scorso settembre. Finché i tassi sono rimasti negativi, nessun problema: le banche pagavano un fee sugli stock in eccesso e la Bce passava all'incasso. Ora, invece, l'Eurotower è costretta a corrispondere un interesse dello 0,75%, commisurato all'attuale costo del denaro, mentre i margini di reddito legati agli asset in pancia (titoli di Stato e corporate bond) sono quasi nulli visto che gli acquisti sono stati effettuati nel periodo Nirp, cioè di tassi sottozero. Follow the Money ha calcolato che se ora la Bce paga 30 miliardi all'anno per remunerare le riserve delle banche private, con tassi tra il 3 e il 5% l'esborso potrebbe oscillare tra i 120 e i 200 miliardi.
Occorre correre ai ripari. E in fretta. Già domani, in occasione della riunione del direttivo, si saprà forse ciò che bolle in pentola. Bloomberg scriveva ieri che Lagarde&C.
potrebbero modificare le condizioni a cui sono concessi i prestiti alla banche, ma un'altra soluzione possibile è aumentare i requisiti di riserva ed esentare parte delle riserve dalla remunerazione degli interessi. Quanto ai tassi, la strada sembra segnata: in arrivo un'altra stretta dello 0,75% che andrà di traverso a non poche cancellerie europee.
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