In Paese a fortissima impronta bancocentrica non mi ha certo sorpreso la vivace discussione accesa dalla mossa estiva della premier di introdurre una tassa sugli extraprofitti delle banche. Intendiamoci. Come tutti i soggetti responsabili, avendone logicamente le disponibilità, anche gli istituti di credito sono chiamati a dare un tangibile contributo per mettere in sicurezza economico finanziaria il Sistema Italia. Tuttavia, come ben sappiamo, non tutte le banche hanno la stessa caratura e, aggiungo io, vocazione.
Ecco perché sono d'accordo con il vicepremier, il politico di cultura liberale Antonio Tajani. Il quale, da qualche giorno, insiste su un aspetto: le banche di dimensioni più ridotte vanno tutelate anziché penalizzate. A suo avviso collocarle sullo stesso piano delle banche più grandi è sbagliato in quanto verrebbero a pagare un contributo in proporzione più elevato rispetto a quello previsto per i brand storicamente maggiori. Le banche più piccole sono quelle che esercitano nei territori un ruolo decisivo di relazione in specie con il mondo delle pmi. Con il sopraggiungere di un annunciato rallentamento anche della nostra economia dovuto a una frenata generalizzata è chiaro che il front line rappresentato dalle Banche di credito cooperativo come dalle Casse rurali non deve essere «distratto» da aggravi che verrebbero a determinare problemi per la salute degli istituti stessi e, a cascata, per le realtà imprenditoriali che agiscono nei distretti. Ecco perché le piccole banche vanno escluse dalla tassa sugli extraprofitti. C'è ancora tempo per ovviare all'errore.
Per l'anima liberale dell'esecutivo si tratta di far prevalere nelle sedi istituzionali la propria influenza affinché si provveda a correggere la norma. Il Sistema Paese non può permettersi il sopraggiungere di uno stato di fibrillazione delle piccole ma strategiche banche attive nei territori.
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