
«Negli ultimi dieci anni in Europa sono stati costruiti 153 stadi di cui due in Italia. Questo la dice lunga sull'iter burocratico italiano, molto, molto difficile». Così si è espresso nei giorni scorsi il presidente dell'Inter Giuseppe Marotta in merito alle continue difficoltà che stanno incontrando la società nerazzurra e il Milan per l'acquisto di San Siro e così poter avviare finalmente i lavori per dargli un nuovo volto, più attrattivo, funzionale, al passo con i maggiori templi del football a livello continentale. Le perplessità di Marotta che, ovviamente, traducono la preoccupazione della proprietà e cioè del fondo statunitense Oaktree, dicono di un malessere tipicamente italiano. Che viene da lontano. Gli intralci che provengono dalle lungaggini e dalle mille eccezioni in capo alla burocrazia sono un'esperienza nefasta, una vera e propria storia sbagliata. La vicenda dello stadio milanese è una di quelle situazioni, certamente eclatante per la risonanza mediatica che porta con sé e che preoccupa assai gli investitori interessati a questo business. Un investitore ha bisogno di certezze, domanda velocità e un rispetto rigoroso delle tempistiche. Purtroppo l'Italia non è in grado di assicurarle. La normalità non abita da queste parti. Tale storico ritardo rappresenta un danno enorme per la nostra economia reale. L'impasse snervante prodotto da una burocrazia che predilige il gioco ostruzionistico della melina non può che determinare un pessimo spettacolo; che allontana, che raffredda gli entusiasmi anche dei più ben disposti.
Il Belpaese merita una burocrazia efficiente (le figure competenti certo non mancano, anzi!), puntuale nell'adempiere alla proprie responsabilità. La riforma di questa macchina strategica deve investire tutti i meccanismi del motore. Questa è la sfida delle sfide. Perché siamo già da troppo tempo all'ultimo stadio.
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