L'Opec si prende un altro mese di riflessione. Rimandato l'aumento della produzione

Preoccupa la scarsa domanda mondiale, occhi sulla Cina

L'Opec si prende un altro mese di riflessione. Rimandato l'aumento della produzione
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Prendere tempo per vedere cosa succederà nelle prossime settimane: sembra questo il motivo che ha portato ieri l'Opec+, l'organizzazione dei Paesi produttori di petrolio nel format allargato alla Russia oltre ad altri alleati, a rinviare il previsto aumento della produzione. I tagli all'output, per un totale di 2,2 milioni di barili al giorno, vengono così mantenuti fino alla fine di dicembre, quando avrebbe invece dovuto prendere le mosse un innalzamento dei livelli produttivi pari a 180mila barili.

La decisione di mantenere lo status quo e di non aumentare quindi l'offerta è in parte legata alla debolezza della domanda che continua a risentire del deterioramento della congiuntura internazionale, con particolare riferimento alla contrazione economica in Cina e ai segnali di recessione in Europa. È infatti dallo scorso giugno che l'intenzione del Cartello (composto da 24 Paesi che controllano oltre la metà della produzione mondiale di petrolio e circa il 90% delle riserve note) di pompare più greggio si scontra con l'indebolimento del ciclo economico.

Ma non estranea alla scelta è anche la volontà di due pesi massimi come Arabia Saudita e Russia di evitare un indebolimento delle quotazioni derivante dalla messa in circolo di maggiori quantità di oro nero. In particolare Ryad è ancora fortemente dipendente dagli incassi garantiti dai suoi pozzi anche se punta a diversificare le entrate con fonti rinnovabili, uno dei punti forti del Piano Vision 2030 del principe ereditario Bin Salman (nella foto). Mosca deve invece finanziare la costosissima guerra in Ucraina. Al contrario, prezzi troppo elevati potrebbero accelerare lo sviluppo di alternative energetiche, rivelandosi quindi un boomerang per i Signori del petrolio.

L'Opec si trova inoltre di fronte al dilemma su come garantire un equilibrio fra offerta e quotazioni in un momento particolarmente delicato sotto il profilo geo-politico. Le rinnovate tensioni tra Iran e Israele, con Teheran che ha promesso una risposta «brutale» agli attacchi della scorsa settimana, hanno venerdì scorso fatto schizzare del 3% i corsi del Wti americano (a 71,3 dollari al barile) e del 2,7% quelli del Brent che si è avvicinato a quota 75 dollari.

Ma più che la possibile sottrazione dal mercato del petrolio iraniano se i suoi impianti petroliferi

venissero bombardati da Tel Aviv, il timore più forte riguarda un'escalation del conflitto in Medio Oriente che potrebbe portare a un blocco totale dello Stretto di Hormutz, snodo cruciale per il transito delle petroliere.

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