Nell'anno della pandemia da Covid-19, dove per la prima volta alcune aziende del settore sono ricorse alla cassa integrazione e le vendite di carburanti nelle aree del Paese interessate dal lockdown sono scese del 40%, la filiera che riunisce raffinazione e distribuzione dei prodotti petroliferi fa i conti con i danni causati da una crisi senza precedenti. A snocciolare i numeri è Claudio Spinaci, presidente di Unem (Unione energie per la mobilità) che ha preso il posto della storica sigla Up (Unione petrolifera).
Nel 2020 la stima è di una perdita, sul 2019, di almeno 10 milioni di tonnellate di vendite in Italia e di 2,5 milioni nell'export. Colpiti sono soprattutto i carburanti per aerei: -65/70%. Unem chiede al governo un intervento urgente da tradurre nel posticipo delle scadenze di fine anno e nel rinnovo delle misure prese a maggio sulle accise. «Ci sono scadenze di fine 2020 - sottolinea Spinaci - per oltre 6 miliardi per le sole accise. La seconda ondata della pandemia ha creato effetti negativi unici: ci sarà, al 31 dicembre, un calo del fatturato di 12 miliardi e una riduzione dei margini lordi di 300-400 milioni. Siamo preoccupati per la tenuta economica e finanziaria del sistema». Proprio in questi mesi di emergenza, il settore - che rientra tra i servizi pubblici essenziali - ha dimostrato la sua importanza, «continuando a non far mai mancare un litro di carburante al Paese», puntualizza Spinaci.
«Secondo Banca d'Italia - avverte - siamo il settore più in sofferenza: il crollo delle quotazioni internazionali, in particolare dei prodotti finiti, sta penalizzando la raffinazione ormai da fine 2019. Siamo un comparto strategico che, in tempi normali, vale 13-14 miliardi nella bilancia commerciale relativa ai prodotti raffinati».
Il cambio di denominazione da Up a Unem è spiegato così dal presidente: «Riflette l'allargamento del perimetro di attività anche alla ricerca e allo sviluppo di prodotti energetici low carbon. Nei prossimi anni le nostre raffinerie lavoreranno nuove materie prime, come i rifiuti, le biomasse e gli e-fuel ottenuti da processi di sintesi tra CO2 e idrogeno verde. E l'equivalente del risparmio ottenuto in emissioni di CO2 sarà paragonabile a quello generato da 50 milioni di autoveicoli elettrici su strada».
Per raggiungere l'obiettivo occorrono investimenti, a livello europeo, nell'ordine di 400-650 miliardi, piani che la pandemia sta complicando. «A mancare è la liquidità - afferma Spinaci - problema numero uno quando crollano i consumi».
Eppure, c'è chi, come il premier britannico Boris Johnson, dal 2030 vuole lo stop alle vendite di auto con carburanti tradizionali. Progetti analoghi (dal 2035) riguardano anche alcuni Stati Usa e Paesi europei. «Noi - risponde Spinaci - abbiamo tracciato la via più percorribile che punta sull'efficientamento dei motori termici attraverso l'ibridizzazione dei veicoli con i carburanti decarbonizzati ai quali stiamo lavorando. Se ne parlerà ampiamente, il prossimo 10 dicembre, quando presenteremo uno studio ad hoc. Sarebbe un errore gravissimo mettere fuori legge le auto alimentate a benzina e diesel, ambito in cui l'industria europea eccelle. Gli obiettivi di decarbonizzazione devono essere raggiunti con la neutralità tecnologica e non per imposizione di tecnologie.
La decisione del premier Johnson, visto il problema Brexit e il fatto che il Regno Unito non ha più un'industria dell'auto, può essere un modo per creare barriere all'Europa, leader nei motori termici. Ecco perché i carburanti low carbon potranno salvare l'industria automotive europea».
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