La "sindrome giapponese" spaventa gli Stati Uniti

Il rally di Wall Street ha le stesse note del boom di Tokyo degli Anni '80. A cui è seguita una stagnazione infinita

La "sindrome giapponese" spaventa gli Stati Uniti

Trent'anni dopo lo scoppio della bolla che sancì l'inizio della fine di quel modello di crescita rutilante ed espansionistico ben descritto da Michael Crichton nel romanzo Rising Sun, il Giappone non si è ancora risollevato. Nessun muovo miracolo. Sol Calante. Nonostante gli stimoli multimiliardari dell'Abenomics e della banca centrale. Ora gli Stati Uniti rischiano di far la stessa fine. Il rally attuale dello Standard&Poor's 500 a Wall Street è perfettamente sovrapponibile a quello del Nikkei nel 1980, una Stairway to Heaven che fu il canto del cigno del sogno nipponico, ma le similitudini non si fermano solo a Wall Street.

Anno dopo anno, la japanization degli Usa sta prendendo forma e corpo. Identiche le dinamiche e le problematiche socio-economiche, identiche le contromisure per contrastarle e risolverle. Come ricorda un'analisi di Lance Roberts, a capo delle strategie di Ria Advisor, Washington condivide con Tokyo il rallentamento dei tassi di crescita, soffre di una curva fra domanda e offerta anelastica, ha a che fare con una produzione industriale debole, esportazioni flettenti e risparmi in contrazione.

E, soprattutto, deve fare i conti con l'invecchiamento della popolazione, che sta minando il sistema di assistenza sociale essendo una passività da 160mila miliardi che dipende dai contribuenti. Da qui deriva la necessità di un continuo drenaggio di risorse pubbliche, visto che in America meno di due lavoratori per pensionato finanziano il regime pensionistico, e che offre un altro esempio della giapponesizzazione economica.

Insomma: il sistema non regge. Secondo il Congressional Budget Office, imploderà nel 2031, quando i fondi si saranno esauriti. Per tappare le falle gli Usa hanno emesso nel 2019, era pre-Covid, titoli pubblici per quasi 1.000 miliardi di dollari, non riuscendo a coprire con le entrate (3.500 miliardi) le uscite (4.400 miliardi), di cui sono per il 75% responsabili la previdenza sociale e gli interessi sul debito. Numeri ovviamente peggiorati lo scorso anno e, verosimilmente, anche quest'anno. Per il 2022 si annuncia l'apertura di un'altra voragine, se verrà approvato dal Congresso il New Deal di Joe Biden che prevede una manovra da 6mila miliardi, due terzi dei quali verrebbero presi in prestito.

Se non verrà invertita la tendenza attuale, Roberts ipotizza che entro il 2050 il debito a stelle e strisce possa schizzare da 28mila miliardi a 140mila miliardi. Un livello insostenibile. Ma, a parte il dibattito di queste settimane sull'opportunità di ritirare gli aiuti (il cosiddetto tapering), la Federal Reserve avrà una sola alternativa nei prossimi anni: continuare a monetizzare il debito, anche a costo di far salire il suo bilancio a 40mila miliardi. E' la classica trappola della liquidità in cui si è infilato il Giappone, senza più riuscire a venire fuori. Eppure, solo così è possibile mantenere bassi i tassi di interesse; solo così si può garantire un impulso economico al Paese.

Basso, però, perché il debito finisce per erodere i margini di crescita e creare un'ulteriore divaricazione fra Wall Street e Main Street, sempre meno prospera. Un'ulteriore prova?

Con la fine dei sussidi federali e con la rimozione a fine settembre del divieto di sfratto, Goldman Sachs stima che fino a due milioni di famiglie rischiano presto di trovarsi in mezzo a una strada.

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