Tesoro e Unicredit alla rottura su Mps

Negoziati al naufragio, pesano la dote richiesta da 7 miliardi e la bomba esuberi

Tesoro e Unicredit alla rottura su Mps

È a un passo dalla rottura la trattativa sul Monte dei Paschi. Potrebbe essere questione di ore. Il braccio di ferro in corso, da mesi, tra Unicredit e il Tesoro (al 64% del capitale di Rocca Salimbeni) sul perimetro e, soprattutto, sulla dote della banca più antica del mondo, sembra prossimo a terminare con un nulla di fatto. E così, chiusa la tornata elettorale, proprio quando il mercato si attendeva l'annuncio di un accordo, in concomitanza con il cda per l'approvazione della trimestrale di Piazza Gae Aulenti del 27 ottobre, potrebbe arrivare lo stop alle negoziazioni e un sostanziale liberi tutti. Le posizioni tra i due interlocutori sarebbero infatti ancora troppo distanti e il tempo stringe. Il Tesoro si è impegnato con l'Europa a uscire da Rocca Salimbeni entro fine anno e non ha ancora depositato richiesta di proroga o vagliato strade alternative a Unicredit. Se dovesse saltare il banco, l'istituto guidato da Andrea Orcel potrebbe fare rotta su Banco Bpm in vista del nuovo piano industriale, mentre il Mef si troverebbe a negoziare con Bruxelles oltre alla proroga dei tempi per la privatizzazione di Mps, anche l'iniezione di 2,5 miliardi nel gruppo per colmare il deficit di capitale.

A lungo, soprattutto dopo il matrimonio tra Intesa Sanpaolo e Ubi, Unicredit era stata ritenuta la sola soluzione possibile per accasare la travagliata banca senese. Il fascicolo, già aperto con il precedente ad della banca milanese, Jean Pierre Mustier, era decollato lo scorso luglio con l'avvio della trattativa da parte di Orcel. Quest'ultimo, tuttavia, aveva messo ben in chiaro che l'operazione avrebbe dovuto avvenire a «neutralità di capitale» per Unicredit e circoscritta ai soli asset di interesse per il gruppo e in grado di accrescerne l'utile per azione del dieci per cento.

Nel corso dei mesi nessuno dei due interlocutori ha però fatto concreti passi avanti per arrivare a un compromesso sui nodi ancora irrisolti nel rispetto delle precondizioni negoziali condivise a luglio: dagli esuberi alle controllate di Mps e agli oltre 300 sportelli che rimarrebbero fuori dal perimetro voluto da Unicredit, fino al tema delle cause pendenti e ai crediti incagliati di Rocca Salimbeni. Senza considerare che la dote chiesta da Orcel per farsi carico della banca più antica del mondo sarebbe ritenuta troppo onerosa per il Tesoro: si parla di 7 miliardi complessivi. Richieste «troppo punitive per il contribuente italiano» secondo fonti di mercato. Secondo S&P «un accordo richiederebbe quasi certamente un significativo apporto di capitale da parte dello Stato italiano, rappresentando un potenziale rischio fiscale».

In allarme il fronte sindacale. «Vedremo se tutto questo bailamme è solo una prova di forza tra gli attori della partita e di questo negoziato. Comunque vada a finire, deve essere chiaro sin d'ora che non deve passare per la testa a nessuno che il cerino possa restare in mano al sindacato.

Non accetteremo tagli di personale se non attraverso prepensionamenti su base volontaria e deve essere chiaro che ci opporremo, con tutti i mezzi a nostra disposizione, a qualsiasi tentativo di macelleria sociale», ha detto il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni.

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